In questo confuso periodo di incredibili rivolgimenti a livello internazionale, si ha l’impressione che le dichiarazioni e le decisioni politiche si esprimano, si rincorrano, si sovrappongano e si contraddicano con tale rapidità che qualunque tentativo di definire le singole posizioni con una certa compiutezza sembra destinato a fallire.
Rotti gli argini linguistici e logici, qualunque assunto -anche il più assurdo e paradossale- acquisisce diritto di cittadinanza nel caos comunicativo per il solo fatto di essere stato pronunciato e qualunque dichiarazione di intenti scatena reazioni di segno opposto che a loro volta finiscono per frammentarsi e contraddirsi.
In questo scenario di guerre guerreggiate, minacciate o anche solo ipotizzate tutti rivendicano di lavorare per la pace: chi esige che coloro che hanno subìto anni di bombardamenti si decidano finalmente ad arrendersi (o che spariscano fisicamente migrando altrove); chi decide di armarsi fino ai denti il più rapidamente possibile rassegnandosi alla prospettiva che il diritto della forza (sperando che basti la deterrenza!) prevalga sulla forza del diritto; chi si chiama fuori e, dopo aver annunciato al mondo “Non in mio nome!”, ritiene che ormai il problema non lo riguardi più; chi inanella analisi e controanalisi raffinatissime pur di ritardare il momento in cui -finita l’analisi- bisogna scegliere e decidere; chi si limita a pregare sperando che a trovare una soluzione ci pensi qualcun altro.
In questo coro cacofonico quello che più colpisce è la parzialità di ogni approccio: ognuno è convinto che la sua strategia sia la migliore, la più giusta, la più efficace o l’unica percorribile; conseguentemente, forte di questa convinzione, rigetta compulsivamente tutte le altre perché sciocche, infondate, inefficaci o impercorribili.
Nessun problema complesso può trovare soluzione se ci si limita a considerarne solo un aspetto: la vera difficoltà è avanzare una proposta che si faccia carico contemporaneamente della sua efficacia, della sua durata, della sua sostenibilità economica, della sua percorribilità politica, delle sue conseguenze indirette e -benché sembra stia diventando sempre più “inopportuno” rammentarlo- anche della sua correttezza etica e del suo “costo umano” (vite, disagi, sacrifici).
Confesso un certo smarrimento di fronte all’irruenza con cui le diverse opzioni si fronteggiano e all’arroganza con cui vengono sparate -ad alzo zero- senza il minimo avverbio dubitativo e senza minimamente tenere in conto i punti di vista altrui. In questo smarrimento ho provato a rileggere un testo che risale ad un periodo in cui -per chi ha l’età per poterlo ricordare- sembrava davvero di essere sull’orlo di una guerra nucleare.
Il testo è dell’11 aprile 1963: la guerra fredda era al suo apice e sembrava che l’unica cosa determinante fosse il numero di missili su cui le due “superpotenze” (come le chiamavano allora) potessero contare. Quel giorno un vecchio saggio di 82 anni, che sarebbe morto neanche due mesi dopo, pubblicò in documento nel quale -con sorprendente ottimismo- affermava: «Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato. Però tra i popoli, purtroppo, spesso regna ancora la legge del timore. Ciò li sospinge a profondere spese favolose in armamenti: non già -si afferma- per aggredire, ma per dissuadere gli altri dall’aggressione. È lecito tuttavia sperare che gli uomini, incontrandosi e negoziando, abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro comune umanità e abbiano pure a scoprire che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l’amore: il quale tende ad esprimersi nella collaborazione leale, multiforme, apportatrice di molti beni». (Giovanni XXIII, Pacem in Terris, n.67).
Si può certamente considerare quel pensiero solo l’irenico sogno di un anziano ormai poco lucido, tuttavia quei negoziati e quelle forme di collaborazione presero gradualmente corpo e la paura del conflitto nucleare venne scongiurata… almeno fino ad oggi.
Mi piace non rinunciare a “sperare che gli uomini, incontrandosi e negoziando, abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro comune umanità”.