Riprendendo il titolo di un ciclo di trasmissioni in corso su Radio RAI 3, martedì 8 aprile Lionello Cosentino e Amedeo Piva, candidati per il PD rispettivamente al Senato e alla Camera dei deputati, hanno discusso di salute mentale con operatori, associazioni e familiari.
La 180 è stata una rivoluzione, ha detto Amedeo Piva, che citando Che Guevara ha evocato la metafora della bicicletta: una volta che ce l?hai, devi pedalare.
Vari interventi hanno rimarcato la scarsezza di fondi (Cornacchia), il peso delle lobbies delle categorie professionali (Palma), il permanere in alcune situazioni di pratiche costrittive e violente (Pacella, Attenasio), la dispersione degli operatori in mancanza di un?idea unificatrice (Pasculli), l?esigenza di una comunicazione più incisiva. La politica deve intervenire mettendo a disposizione dei cittadini strutture idonee, operatori qualificati, e dettando linee generali di intervento ispirate al primato della persona e al diritto costituzionale alla cura.
Ma? Un paio degli interventi colgono un dato fenomenologico: l?età media dei partecipanti, che viene tenuta ?bassa? dai cinquantenni presenti in sala (salvo uno studente di psicologia). Ecco, comincio ad afferrare un filo di pensiero. Stiamo ascoltando una musica nota, suonata da strumenti noti. Un senso di ripetitività, niente di nuovo sotto il sole, solite lamentele sulla scarsa attenzione all?applicazione della legge, solita denuncia di chi ancora agisce in base a prassi vecchie e rifiutate dalla società.
Diverso l?intervento di M. Grazia Giannichedda: l?elettroshock è una tigre di carta. Provo a sintetizzare. I continui alti lai per la reintroduzione dell?elettroshock e altre pratiche violente sono esagerati: sono pochissimi coloro che ancora le applicano, in un limitato numero di luoghi, (9 in tutto il paese) alcuni dei quali neanche funzionanti. Come dire: doveroso tenere alta la guardia, vigilare, denunciare, ma si tratta di quattro gatti, e allora forse sarebbe meglio dedicare maggiori energie ad altro. Forse proprio a fare il punto della situazione, rielaborare, ripensare.
Così mi tornano in mente le parole di Giovanni Jervis, intervistato da Radio Rai 3 nella prima trasmissione del ciclo ?Trenta di 180?: la chiusura dei manicomi, nella misura in cui nella stragrande maggioranza erano diventati lager, era doverosa. Poi però c?è stata tanta confusione, gli epigoni di Basaglia hanno voluto negare l?esistenza della malattia mentale riducendo il tutto alla liberazione dall?oppressione, mentre quello doveva essere solo il primo passo per avviare una storia di vera cura. Forse però gli epigoni non si sono poi tanto allontanati dal pensiero del maestro. Anche se, da non specialisti, non abbiamo letto tutti i suoi libri, bastino le sue parole in un?intervista con Maurizio Costanzo (L?Acquario,1978): ?quando sono entrato in manicomio mi sono reso conto che tutto quello che avevo studiato era falso. La malattia mentale non esiste, c?è solo l?emarginazione sociale?.
Nel corso dell?incontro una mamma, attiva in una benemerita associazione di familiari, rassegnata all?idea che la cura non esiste, ha detto che si tratta soltanto di accettare la diversità della sua meravigliosa figlia schizofrenica. Splendido atto d?amore di una donna, penso che la rassegnazione, il sostituire la cura con un prendersi cura – che riduce tutto alla pur doverosa assistenza e cristiana accettazione della croce – non sia auspicabile né accettabile. Ma cosa può dire una madre, quando altri interventi di stimati addetti ai lavori dicono che nel campo della malattia mentale finora non è emersa nessuna nuova ricerca, nessun nuovo approccio di cura? Può darsi che, invece, le cose non stiano proprio così.
Per capire meglio, facciamo un po? di storia.
Poco più di duecento anni fa Pinel per la prima volta distinse i malati mentali dai poveri emarginati e dai condannati per reati vari, fino ad allora confusi e internati nei medesimi luoghi. Uno di questi malati, liberato dalle catene, divenne per tutta la vita suo fedele servitore.
Progressivamente nell?800 si affermò l?idea e la prassi in base alla quale i malati di mente dovevano essere accolti in ambienti appositi, asili o ospedali ?specializzati?, i manicomi; ma la medicina in genere, e la psichiatria in particolare, avevano allora ben poche frecce nel proprio arco per curare.
Se nella medicina organica presto vennero le prime grandi scoperte ? asepsi, batteriologia, penicillina, vaccini ecc. ? nel campo psichiatrico l?osservazione del malato, che finalmente poteva essere effettuata da parte dei medici nei manicomi, portò alla formulazione di nosografie che tuttavia non sfociarono immediatamente nella scoperta della cura. Si procedeva a tentoni senza una teoria che giustificasse l?operare. Alla Salpetriere di Parigi Charcot ipnotizzava le isteriche, i cui sintomi sparivano nell?ipnosi per ricomparire immediatamente sveglie; le psicosi più gravi venivano ?curate? con la contenzione e orrori vari quali, nel corso del tempo, e fino a tempi recenti, bagni freddi nelle piscine piene di alghe, sedie girevoli, inoculazione del virus della malaria, insulinoterapia, elettroshock, lobotomia.
Con gli anni ?50 vennero gli psicofarmaci. Dopo un primo momento di grande entusiasmo, i più attenti cominciarono a rendersi conto che la contenzione chimica sostituiva quella fisica. Meno violenta? Forse no, per la dipendenza e i danni irreversibili che le sostanze possono indurre nel cervello, in modo non dissimile dalle droghe. (Recenti pubblicazioni scientifiche divulgate da tutti i grandi quotidiani hanno svelato la maxi truffa del Prozac. Perfino Cassano, obtorto collo, ha dovuto ammetterne il funzionamento come placebo).
Gli anni sessanta, pieni di fermenti e ricerche nuove (Arieti, Galli, Napoletani ecc.) portarono alla proposizione delle comunità terapeutiche e più in genere della psicoterapia. I farmaci potevano andar bene per una momentanea sedazione, ma non erano risolutivi. Risolutivo era il rapporto medico ? paziente in un?impostazione psicoterapica.
La legge Mariotti del 1968 andava in questo senso, abolendo l?iscrizione dei ricoverati nel casellario giudiziario, introducendo il ricovero volontario, vincolando l?ospedale psichiatrico al territorio e riducendone le dimensioni, consentendo la nascita delle comunità terapeutiche e dei centri di igiene mentale, aprendo a nuove professionalità (psicologi e assistenti sociali).
Possiamo dire che la legge Mariotti non fu applicata se non parzialmente. E laddove lo fu, come a Padova, nell?ospedale psichiatrico diretto da Barison, si fecero cose egregie: già nel 1961 venne abbattuto il muro di cinta e avviato uno stretto rapporto con il territorio. Le crisi acute venivano affrontate senza contenzione e con la collaborazione di tutto il personale, medico e paramedico, e gli stessi altri malati.
La 180 fu approvata in fretta e furia sotto l?incombente minaccia di un referendum promosso da Pannella, nel tragico periodo del rapimento Moro. Le sue basi ?teoriche? furono quelle che mettevano sullo stesso piano la ?liberazione? dei malati e quella delle donne, degli operai, delle persone oppresse (Foucault & c.). Per difenderla e applicarla veramente, forse bisogna non credere a Palma, quando afferma che il coordinatore del gruppo terapeutico non deve essere né lo psichiatra né lo psicologo. Sarebbe come dire che in sala operatoria non decide il chirurgo.