Quali sono i criteri per stabilire perché un lavoro vale più di un altro e quanto vale di più?

 

A parte chi il lavoro non ce l’ha (e quindi non guadagna niente) e chi lavora in proprio (e guadagna in  proporzione a quanto è richiesto ed apprezzato), la maggior parte di coloro che lavorano ricevono uno stipendio concordato con chi li ha assunti.

Sorvolando sull’aspetto, niente affatto trascurabile, della differenza fra il netto, il lordo e il costo finale per l’azienda (qui), come tutti sanno ci sono lavori pagati di più e lavori pagati di meno: è -almeno questo- un dato di fatto che generalmente nessuno mette in discussione.

Ma quali sono i criteri per stabilire perché un lavoro vale più di un altro e quanto vale di più? Esistono criteri oggettivi che permettono di definire uno stipendio “giusto”, “basso” o “alto” ?

E’ ragionevole fissare dei limiti -in alto e in basso- all’ammontare del compenso stabilito?

La partita si gioca intorno a tante variabili, difficili da definire e ancor più da misurare: non c’è da stupirsi, dunque, che questo sia un argomento sul quale ci si può accapigliare all’infinito senza temere che prima o poi si capisca chi ha ragione. E’ il paradiso dei ‘litigatori’ di professione!

Senza pretendere di risolvere la questione, vale però la pena di dare un’occhiata a queste variabili, se non altro per capire quanto sia difficile identificare criteri condivisi.

La più facile delle variabili -l’unica che si può misurare in modo univoco- è il tempo di lavoro. Si concorda una retribuzione oraria e si moltiplica per le ore lavorate… ovviamente a parità di “livello” (e qui le cose cominciano a complicarsi): certe mansioni sono valutate più “basse” di altre, perché richiedono minori competenze e minori capacità ed è considerato “giusto” che siano pagate di meno. Che costruire occhiali richieda più competenze e capacità di caricarli su un camion è evidente, ma in altri casi misurare e paragonare le competenze e le capacità non è così facile. Ovviamente non finisce qui. Ci sono ben altre variabili in gioco: ad esempio il rischio e la responsabilità. Come quantificare la responsabilità di un medico che firma una diagnosi o il rischio che affronta il chirurgo in  sala operatoria? Quanto vale la sua esperienza maturata nel tempo? Vale più o meno di quella richiesta al pilota di un aereo di linea? Sono paragonabili la fatica di una badante che si occupa a tempo pieno di un disabile grave e quella di un amministratore che deve far quadrare un bilancio? E quanto vale la creatività di chi non deve semplicemente “fare”, ma deve “inventare” cosa fare? Un amministratore delegato di una società con migliaia di dipendenti, dalle cui scelte dipendono il lavoro di molti e il funzionamento di servizi importanti, va pagato più o meno di un calciatore di successo, di un giornalista o di un’attrice? Ma -si può obiettare-  il calciatore, il giornalista e l’attrice fanno guadagnare molti soldi con la loro notorietà, ecco perché vengono pagati molto… e la notorietà come la classifichiamo? Tra le competenze o tra le responsabilità? O, alla fine, conta solo il mercato, con buona pace di ciò che sarebbe giusto e ragionevole? Forse sì, o forse -in questo caso- quello che chiamiamo mercato altro non è che il principio di realtà con cui dobbiamo fare i conti. O no?