1. L?identificazione di questo Rapporto con la cultura delle lunghe derive impone, anche per trasparenza professionale, di dichiarare su quali linee interpretative ci siamo mossi negli ultimi anni, per agganciare ad esse la valutazione del 2007.
Nel 2003 abbiamo segnalato che non c?erano ragioni per innamorarsi di un?ipotesi di declino e impoverimento. L?anno dopo abbiamo rilevato che il Paese andava verso una consistente patrimonializzazione di massa (mobiliare, ma più ancora immobiliare). Nel 2005 abbiamo constatato che stavano crescendo nel Paese, fra tanti timori, schegge di vitalità e ripresa. Infine, nel Rapporto dello scorso anno avanzammo l?ipotesi di uno sviluppo sostenuto, quasi di un silenzioso boom (guidato essenzialmente da una minoranza industriale orientata alla globalizzazione). Un crescendo di visione positiva: forse come reazione, certo in controtendenza, all?afflosciato pessimismo imperante.

2. Al termine del 2007 occorre chiedersi se quella sequenza di lungo periodo sia ancora in corso o se invece il sistema non riesca a far diventare collettiva quella determinazione allo sviluppo quotidianamente esplicata dalla minoranza industriale. Continua, in altre parole, quel silenzioso boom? La risposta è positiva, poiché si sono consolidati:
– l?orientamento strategico a coprire attraverso un?offerta adeguata la fascia altissima del mercato, con opzioni combinate di qualità produttiva, promozione d?immagine e alto prezzo;

– la scelta spontanea di fare un?articolata ?strategia di nicchia? che premia la differenziazione produttiva delle medie e piccole imprese, la logica del lavoro ?su commessa?, la personalizzazione e fidelizzazione del cliente;
– la base territoriale del nostro sviluppo, visto che la ri-localizzazione in Italia di molte produzioni di alto brand ha di fatto rilanciato le principali aree economiche del Paese (si pensi al Nord Est e alla direttrice adriatica, ma anche a numerose zone nord-occidentali).
Inoltre, si è innescato un protagonismo dei grandi players, capaci di combinare fedeltà alla loro dimensione e aggressività sui mercati esteri (con una preferenza per l?Europa orientale). La cosa vale per i big players di tradizione industriale e finanziaria; ma anche per quelli che operano nel campo delle utilities (specialmente nel campo energetico) con investimenti di intensità sconosciuta rispetto al passato e rispetto all?esperienza recente degli altri paesi europei.
La combinazione di tutti questi fattori induce a pensare che l?economia reale in Italia abbia un andamento più che buono: cresce l?export manifatturiero, il fatturato delle imprese, la salute dei conti aziendali; cresce la voglia di successo (individuale e collettivo) degli imprenditori; cresce il PIL, che dovrebbe in questi ultimi mesi dell?anno avere una spinta dalla combinazione dei sopraccitati fattori di consolidamento. In conclusione, tipico da sempre dell?economia reale, cresce l?orgoglio imprenditoriale di una superiorità rispetto alla finanza e alla politica.

3. Non sarebbe corretto, in virtù di tale orgoglio, non ricordare che la dimensione finanziaria potrebbe essere la nuvola nera sovrastante la chiarezza di visione delle cose dell?economia reale. Non possiamo infatti dimenticare che:
– il debito pubblico pesa come un macigno non solo sui conti, ma anche sulla libertà psicologica dei cittadini, i quali sanno di pagare ogni anno interessi per decine di miliardi di euro, sottratti alla loro voglia di fare dei nostri operatori;
– l?erratica scoperta di ?tesoretti? e la loro destinazione erraticamente politica, escludendo un loro più fisiologico impiego per ridurre il debito, rende ambiguo e labile ogni orientamento al bene comune strettamente finanziario;
– le turbolenze finanziarie che agitano le economie mondiali negli ultimi mesi potranno creare problemi nella concessione dei crediti alle imprese e nel pagamento dei mutui immobiliari (fenomeno più socialmente sensibile, viste le scelte a tappeto di molte famiglie nel quinquennio precedente).

Sono influenze, dirette e indirette, di un certo rilievo, tanto più che esse attirano l?opinione pubblica e la comunicazione mediatica (e con più drammatizzazione) molto più delle quotidiane ordinarie, e quasi ?incomunicabili? vicende dell?economia reale. Tuttavia non è una snobistica sottovalutazione dei problemi finanziari dire che le preoccupazioni sorte negli ultimi mesi sono state via via ridotte e in parte superate. Almeno quelle a breve. Resta invece quella più angosciante, cioè il dissanguamento della ricchezza delle famiglie per pagare interessi sul debito (riguarda un incastro che va oltre il ragionamento sull?anno in corso).

4. Se la dinamica a breve sembra confortante, la preoccupazione più grande è quella di capire perché la ?buona ripresa? in corso non diventa sviluppo di lungo periodo, insomma, perché il successo della minoranza industriale non riesce a coinvolgere l?intero sistema sociale. Siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non uno sviluppo di popolo, come quelli che abbiamo vissuto in diversi momenti del secondo dopoguerra.
Sarà utile evitare le spiegazioni più facili, per cui la divaricazione fra minoranza industriale forte, ma non trainante, e maggioranza inerte (o almeno vischiosa) sarebbe dovuta, da una parte, a una mancanza di mordente o all?egoismo della prima e, dall?altra, allo strutturarsi della componente maggioritaria in termini di zavorra: al limite, di negazione del tipo di sviluppo che si persegue o attua. Gli atteggiamenti delle due megacomponenti sociali sono importanti, ma occorre andare oltre per capire perché l?intensa dinamica della minoranza industriale non riesca a filtrare nell?insieme del sistema, innestando nuove e diffuse energie collettive.
Vale per la dimensione territoriale, visto che le regioni centrali e settentrionali hanno assorbito la spinta positiva dello sviluppo di minoranza fin dentro i più sperduti microcosmi territoriali, mentre quasi tutte le regioni meridionali sembrano restar fuori della positiva evoluzione, anche internazionale, dell?economia reale italiana. Restiamo un?economia ancora segnata dall?antico divario Nord-Sud.
Vale per la differenziata composizione sociale, visto che alcuni gruppi e fasce sociali (specie nei giovani e nelle professioni) hanno accettato le sfide, mentre la maggior parte dei ceti non esposti alla competizione preferiscono restare indifferenti alle sfide stesse.
E le differenze sono ancor più visibili nella dinamica salariale, visto che non c?è stata una giustificativa crescita dei salari. Le cifre ufficiali dicono che tale crescita è stata più forte nel pubblico impiego, che non è una punta di minoranza vitale. Verosimilmente la realtà è differente, tenendo conto che nell?industria ci sono forme diversificate di retribuzione del lavoro; ma è certo che nell?industria si fa strada un controllo dei costi, anche della dirigenza, che fa pensare a un?aggressività di mercato accompagnata dalla tentazione di limare i salari. Le imprese sono soggetti con strategia duplice: di high-price sull?esterno, di low-cost all?interno.
Senza aumento dei salari, lo sviluppo di minoranza non è riuscito a generare un rilancio generalizzato dei consumi come tutti avevano auspicato ed atteso. Ed anche se nel primo semestre 2007 abbiamo avuto un incremento dei consumi del 2%, incremento desueto da anni, esso sembra accompagnarsi non alla trasposizione delle energie minoritarie in energie di massa, ma piuttosto a una complicata ristrutturazione della logica di consumo delle famiglie italiane.
Dopo l?euro (e la fine delle svalutazioni competitive) le imprese hanno portato avanti un re-settamento dei costi (da comprimere) e delle strategie (da inventare). Così le famiglie, con l?arrivo della nuova moneta, hanno vissuto una compressione durissima (vivere con 1.000-1.500 euro al mese) e si sono sentite in una spiacevole sensazione di vulnerabilità. Ma si sono subito applicate ad una intelligente strategia di contrasto; così a una prima reazione di lamento, è seguita una triplice, differenziata strategia di spesa: gestire i volumi di consumo ordinario con acquisizioni low-cost; concentrare quel che avanza sull?acquisto di beni durevoli, magari calibrando anche il credito al consumo; dedicare quello che rimane, se rimane, allo sfizio gastronomico o turistico o addirittura culturale (peraltro consumi a maggiore incremento). Un?astuzia di massa, una medietà controllata ? Parliamo pure di una petite raison (di low way of life, forse) perché si tratta di intelligenti opzioni strategiche nella spesa degli italiani. Prendiamo atto, cioè, che il tutto avviene senza un clima di fiducia, con un riflesso pessimistico sull?indebitamento e i suoi pericoli. Che poi l?indebitamento sia senza grandi default, incagli e sofferenze (comunque molto al di sotto della media dei Paesi più sviluppati) è messaggio che non passa in una cultura collettiva statica da troppo tempo.

5. Una società che comunque si è appiattita sul contrasto alla sua vulnerabilità non solo non ha molto interesse alle magnifiche sorti della minoranza industriale operante con profitto sul mercato internazionale; ma ancor più tende a trasporre il proprio disagio verso altre e più alte responsabilità. Si propende a pensare che la colpa di tutto (restrizioni di reddito, consumo, fiducia nel futuro) siano da ricondurre a una complessiva e comune incapacità di costruire uno sviluppo partecipato: la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce ?tesoretti? ispirati più al risarcimento del passato che alla costruzione del futuro. La maggioranza resta nella vulnerabilità, lasciata a se stessa. Più rassegnata che incarognita, in un?inerzia di fondo che forse è la cifra più profonda della nostra attuale società.
Lo sviluppo non filtra sia perché non diventa processo sociale, sia perché la società sembra adagiarsi in quell?inerzia diffusa che è antropologia senza storia, senza chiamata al futuro. Una realtà ambigua, senza rilievi e contorni di tipo sociologico e politico, piattamente de-totalizzata, e quindi sfuggente a ogni schema e sforzo interpretativo. Una realtà:
– che diventa ogni giorno una poltiglia di massa; impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa;
– che inclina pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio, creato e supportato da un intelletto anonimo, di nessuno, tanto che non se ne possono neppure decifrare le responsabilità;
– che in modo più o meno cosciente inverte i processi-simbolo che ci hanno reso orientati allo sviluppo e spegne quindi il ?vitale?, quasi fosse un resto arcaico in una società che non accetta più tensioni e diversità di destino sociale.

Si tratta di tre affermazioni che sembrano anche semanticamente provocatorie, ma che hanno dentro delle verità che non è giusto analizzare e non sorvolare per pavida rimozione o per cinico svicolamento nelle tante retoriche di oggi.

6. Al termine poltiglia di massa si può (con eleganza minore) sostituire il termine più impressivo di ?mucillagine?, quasi un insieme inconcludente di ?elementi individuali e di ritagli personali? tenuti insieme da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni.
E? noto che la frammentazione progressiva di tutte le forme di coesione e appartenenza collettiva ha creato una molecolarità che è stata una forza di sviluppo economico e imprenditoriale. Ma noi stessi che di quella molecolarità siamo stati cantori abbiamo potuto e dovuto constatare che essa sta creando dei ?coriandoli?, i quali stanno insieme (meglio sarebbe dire ?accanto?) per pura inerzia, per appagato imborghesimento, per paura di non tornare indietro, magari mitridatizzata da una sempre più generalizzata volgarità plebea.
La caratteristica fondamentale dei ?ritagli umani? senza identità è la dispersione del sé, nello spazio e nel tempo collettivo. Nello spazio, per la vittoria irresistibile dalla soggettività esasperante in ogni comportamento, senza attenzione al momento della relazione e della convivenza. Nel tempo, per il declino irresistibile dell?attenzione su un tema, un problema, un fenomeno (Carlo Emilio Gadda riteneva dispersiva un?attenzione radiofonica di 12 minuti, cosa direbbe oggi che siamo scesi forse intorno ai due?). Con i ritagli non si costruisce un tessuto sociale: così abbiamo, sul piano individuale, bolle di aspirazioni senza scopo e senza mordente e, sul piano sociale, deboli connessioni, smorte forme di aggregazione e inanimati simulacri dei processi di coesione che furono.

7. In questa situazione strutturale non può sorprendere quella sensazione di continua inclinazione al peggio che attraversa quotidianamente l?opinione degli italiani, indotta e supportata anche da contenuti e toni della comunicazione di massa.
Dovunque si giri il guardo – sembra pensare l?italiano medio ? facciamo esperienza e conoscenza del peggio: nella politica come nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità urbana come in quella organizzata, nella dipendenza da droga e alcool come nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie come nello smaltimento dei rifiuti, nella ronda dei veti che bloccano lo sviluppo infrastrutturale come nella bassa qualità dei programmi televisivi. E? abituale allora ricavarne che viviamo una disarmante esperienza del peggio. Settore per settore ?nulla ci è risparmiato?, tant?è che vincono sull?antropologia collettiva i fattori regressivi, anche se non avvertiti in modo sempre cosciente:
– vince una diffusa povertà psicologica, perché la dispersione del sé rende labile l?approccio individuale a ogni fenomeno sociale e a ogni relazione interpersonale;
– vincono quindi le pulsioni in genere frammentanti e non le passioni, tendenzialmente unificanti; e tanto meno, vincono gli atteggiamenti razionali, come è possibile constatare guardando in controluce le vicende meno esaltanti degli ultimi tempi;
– se vincono le pulsioni, tracima senza argine la rincorsa alle presenze, quasi a far coincidere la pulsione, anche la più stralunata, di presenza con l?unica esistenza desiderabile;
– la coazione alla presenza porta a quel primato dell?emozione esternata dell?esperienza che diventa piece mediatica, dell?insistenza febbrile, della riproposizione anche drammatizzata che, sotto sotto, produce sciupìo, in un masochismo ansiogeno. Così al rito della vuota presenza consuma le radici stesse dell?esistenza;
– l?incessante attività comunicativa, giuocata sulla comune strategia di rispecchiare emozioni e drammatizzazioni del proprio pubblico, induce a una monotonia dei messaggi e del linguaggio e restringe la pluralità dei codici comunicativi. Il mondo diventa null?altro che la sua rappresentazione: ci si adatta a vivere in un nirvana virtuale ma fragoroso (forse per dimenticare noia e sonnolenza);
– se è così, non è peregrina l?emersione di nuove malattie dell?anima, direbbe qualcuno. Finisce comunque in secondo piano l?intenzionalità, anche individuale e specialmente quella sociale e politica. Le intenzioni più ambiziose, poi, finiscono per arroccarsi nella speranza di non regredire e sparire.

8. Di questa costante inclinazione al peggio tutti avvertiamo i singoli episodi, ma non cogliamo il senso strutturale. Restiamo prigionieri della sorpresa che gli episodi ogni volta ci portano dentro, senza capire quale sia il meccanismo globale alla loro base e quali armi di contrasto abbiamo già o, più verosimilmente, dobbiamo elaborare.
In proposito, si può avanzare l?ipotesi che l?inclinazione al peggio della nostra mucillagine sociale sia dovuta, nel profondo, a un lasciarsi andare in tanti ?ritagli umani?, senza adeguati punti di riferimento, convergenze psichiche, simboli collettivi. Si può pensare, citando Melanie Klein, che sia in corso ?una inversione del processo di simbolizzazione? o più esattamente un processo di ?de-sublimazione?. Una società che si era costruita su grandi riferimenti simbolici si ritrova oggi a doverne constatare la corrosiva desublimazione, il loro regredire di senso. La patria diventa interesse collettivo più che identità nazionale; la religione diventa religiosità individuale e di gruppo; la libertà diventa imperfetto possesso del sé; il popolo diventa moltitudine di massa; la famiglia diventa contenitore di soggettività a moralità multiple; la ragione diventa petite raison; il lavoro diventa un?opzione di secondo livello rispetto all?arricchimento facile con mezzi facili; l?etica diventa un elenco di indicatori di social responsability; la passione si sfarina in pulsioni; il valore della parola si grattugia in parole tanto eccitate ed ebbre quanto prive di contenuto o messaggio.

Nessuno può negare che l?inversione del processo di simbolizzazione è figlia anche di processi culturali e storici che hanno liberato i singoli da antiche prigionie comportamentali e da antiche minorità valoriali. In altri termini, sono la conseguenza di processi che hanno democratizzato la vita collettiva, riducendo anche i poteri-custodi, spesso interessati, dei grandi simboli. Ma non si può al tempo stesso negare che tale inversione è madre di un meccanismo socioculturale che ? nella corrosione progressiva dei simboli ? non forma più idee comuni, convergenze sociali, progetti politici. E non saranno verosimilmente i riti che richiamano in piazza antiche identità o improvvisati banali assemblaggi che potranno provvedere a nuove condensazioni valoriali. Nella massa pastosa di coriandoli il collante, come si è visto, è a bassa totalizzazione: giocare sull?identità porta solo a un loro progressivo rattrappimento.

9. Non si può chiudere gli occhi sulla connessione sotterranea che opera quotidianamente fra i tre processi analizzati nei paragrafi precedenti (una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio, desublinando ogni valore collettivo). Una connessione pericolosa che potrebbe spegnere quel ?vitale? che è stato parte integrante della nostra evoluzione storica.
Ecco, il traguardo del peggio sarebbe la perdita del ?vitale?. Per questo si può e si deve prendere coraggio e guardare la realtà senza comode rimozioni o dimenticanze. Il benessere piccolo borghese degli ultimi decenni ha creato un monstrum alchemicum che ci rende impotenti, come di fronte a una generale entropia.
Non a caso serpeggiano sia valutazioni di puro giudizio morale, per cui il ?mostro? sarebbe frutto di forze immorali e più ancora a-morali, entrate liquidamene nella dinamica individuale e collettiva; sia valutazioni di fatalistica accettazione che ?tutto è vanità? e che si può soltanto salvare la propria vita e anima; sia valutazioni illuministiche, per cui si spera e attende l?ira della storia (che comunque non si abbatte su di noi, ma si impantana e disperde in emozioni banali); sia valutazioni messianiche e fondamentaliste (Dio interrompe la storia con eventi radicali) che vengono però rimosse da chi non crede più nella potenza divina e insieme da chi pensa che saremo ancora e per lungo tempo autorizzati a far noi la nostra storia.

Non possiamo comunque restare, essendo una società ormai complessa, in nessuna delle passive accettazioni dell?entropia che ci sta consumando. Occorre saper elaborare nuove offerte di cultura collettiva, incardinate nella fedeltà all?idea e alla prassi del nostro sviluppo storico, antico e recente. Bisogna andare a riscoprire le forze reattive nel sottosuolo della nostra società e ridargli vigore. Mettendo da parte, con determinazione:
– da un lato, l?offerta culturale e politica che oggi tiene banco. Nel migliore dei casi, è legata alla ricerca di equilibrio fra forze e controforze che non è più un obiettivo: non perché non sia il giusto esito della dialettica sociale, ma perché non c?è più sostanza nelle forze e controforze potenzialmente implicate). Nel peggiore dei casi, è un?offerta taroccata dalla logica vuota degli schieramenti, perché la crisi delle ideologie ha in sé anche la crisi della logica degli schieramenti, destinati a diventare sempre più speculari contrapposizioni di poteri;
– dall?altro lato, che non è possibile ragionare in termini pendolari, come molti pensano. Di conseguenza, a una fase di desublimazione e di desimbolizzazione succederà o dovrà succedere una fase di riaffermazione dei fondamenti valoriali e dei carismi mobilitanti. Non si torna indietro, come molti ingenuamente sperano, anche se le tentazioni fondamentaliste e carismatiche sono oggi molto diffuse, magari guardando ad altri sistemi sociali (e religiosi) e rispondendo a quel ?bisogno di uomo forte con idee forti? con cui si vorrebbe rispondere all?insicurezza. Certo, è comprensibile che qualcuno pensi che ?il multiplo non potrà che far maturare il desiderio unitario?, ma sembriamo ben protetti dalle tentazioni di fondamentalismo o di leadership carismatiche.

10. Si potrà riscontare un difetto comune nelle ultime segnalazioni di difficoltà, tutte legate a una cultura che pensa dall?alto e sistemicamente: l?equilibrio politico delle forze, il peso degli schieramenti, il valore dei fondamenti e del fondamentalismo, le tentazioni al carisma come attrattore del molteplice.
Non è orgogliosa rivendicazione di cultura aziendale richiamare la consapevolezza che in tutte le società moderne, e più ancora in Italia, ai grandi geni e ai grandi sistemi si sostituiscono oggi, da un lato, l?avventura e i rischi personali e, dall?altro, gli scambi relazionali.
Non c?è bisogno, specie in questa sede, di richiamare le caratteristiche della società italiana che corrispondono a questa evoluzione: dalla soggettività a vasto raggio all?imprenditorialità molecolare, dal crescere della comunicazione in rete allo scambio turistico dentro e fuori i confini. Basta segnalare, quasi in termini di simbolica conferma, che sono proprio lo spirito d?avventura e il largo spettro di relazioni che hanno fatto grandi, anche nell?immaginario collettivo, i protagonisti più noti della recente minoranza vitale, siano essi fabbricanti di auto, pellami, vestiario o denaro. Basta segnalare, molto più in basso, che qualche personaggio di spettacolo ha tentato di far politica coniugando avventura personale e comunicazione telematica, ma non si è rivelato adeguato fabbricante, almeno di stile semantico.
Se vale lo schema, le offerte innovative devono supportare l?avventura personale e promuovere l?ampliamento degli scambi relazionali. E? un?offerta, va sottolineato subito, che può venire solo dalle nuove minoranze attive:
– la minoranza che fa ricerca scientifica e innovazione tecnica è orientata all?avventura dell?uomo e alla sua potenzialità biologica;
– la minoranza che, nella scia della minoranza industriale oggi rampante, fa avventura personale e sviluppo delle relazioni internazionali (si pensi ai giovani che studiano o lavorano all?estero, ai professionisti orientati ad esplorare nuovi mercati, agli operatori turistici di ogni tipo, ecc.);
– la minoranza che ha compiuto un?opzione comunitaria, cioè ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita;
– la minoranza che vive il rapporto con l?immigrazione come un rapporto capace di evolvere in termini di integrazione e coesione sociale;
– la minoranza che si ostina a credere in una esperienza religiosa insieme attenta alla persona e alla complessità dello sviluppo ai vari livelli;
– e le tante minoranze che hanno scelto l?appartenenza a strutture collettive (gruppi, movimenti, associazioni, sindacati, ecc.) come forma di nuova coesione sociale e di ricerca di senso della vita.

Sembra, e forse lo è, un?indicazione segnata da una logica minimalista, lontana dalla nobile consistenza degli obiettivi di sistema che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Ma è bene ricordare che oggi abbiamo il problema di innescare processi di lenta ma profonda evoluzione: solo le minoranze possono trovare la base solida da cui partire, possono fare innesco di nuovi processi sociali sfuggendo alla tentazione del breve termine e quella di diventare la maggioranza che fa e governa il sistema.

11. Del resto, nel giuoco di chi offre cosa, le offerte minoritarie sopra elencate hanno un?incisività di gran lunga superiore a quelle correnti nel dibattito politico attuale, dove ci si rinfaccia difetti senza sentire l?obbligo d?offerta alternativa o siamo a offerte senza mordente, inerti nella dinamica dell?opinione pubblica. Chi crede oggi, sic et simpliciter, nel rilancio dell?azione per il Mezzogiorno, nel rafforzamento delle funzioni e dei poteri europei, nelle battaglie per una più o meno rivoluzionaria giustizia sociale, eccetera? Bisogna andare al resistente, magari piccolo, fondo di rifiuto dell?inclinazione al peggio, da cui può iniziare un faticoso percorso di nuova costruzione, dove la persona e gli scambi relazionali hanno peso strategico. Occorrono altre minoranze capaci di incidere sulla consuetudine regressiva.
La minoranza industriale oggi più dinamica e vitale non ce la fa a trainare tutti, visto che è comunque concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono, fra l?altro, scatenare effetto imitativo in un mercato non ricchissimo come il nostro. E la pur indubbia ripresa rischia di essere malata, se non innesca comportamenti più diffusi di avventura personale e di scambio relazionale; e se non si immette fiducia nel futuro, in un?ulteriore fase del nostro sviluppo. Solo le varie minoranze indicate possono sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno.

12. Ma quelle energie avranno pur bisogno di un ?collettore collettivo? e di una riconcentrazione di alleanze. La risposta più abituale guarda all?azione politica e alla sua tradizionale funzione di mobilitazione sociale. Ma il suo stato non lascia molte speranze: vecchi e nuovi potenziali schieramenti non hanno forza di mordente unitario; la verticalizzazione della leadership ha dimostrato che non crea soluzioni adeguate; la classe dirigente scossa, dall?attuale ventata di antipolitica, dimostra una esagerata coesione alla presenza, specialmente mediatica. Non può venire da lì il ruolo di collettore di energie e di riconcentrazione di alleanze sociopolitiche.
Anche perché, con più oggettività, la politica è fatta di ?opinione larga? (le piazze, anche quelle mediatiche, sono le arene obbligate) mentre oggi il rilancio dell?offerta passa per una ?coscienza stretta?, cioè di culture capaci di incidere sulla inerzia maggioritaria che appiattisce al peggio e di sviluppare codici semiotici anche un po? faziosi, se necessario, ma mirati a perseguire obiettivi precisi, volutamente non rivolti al consenso della ?opinione larga?.

Di cosa è pieno lo spazio e la durata? A questa domanda, che impegna tutti coloro che interpretano la deriva della nostra evoluzione storica, si può rispondere (ancora e sempre) che lo spazio e la durata ?sono pieni del possibile?, solo che si cominci semplicemente a pensare. Non rimuginando l?esistente impigriti nel presente, ma immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi; e confrontandosi con i processi che oggi fanno relazione collettiva e sviluppo storico. Sfida faticosa, che le citate diverse minoranze dovranno verosimilmente gestire da sole. Ma sfida desiderabile, per continuare a crescere forse anche con un po? di divertimento; sfida realistica, perché non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di mettersi nel solco di modernità che pervade tutti i paesi avanzati (e che considerano oggi moderni i processi che noi consideriamo regressivi, dal mix etnico alla patrimonializzazione, dal calo demografico all?appiattimento del ceto medio); ma specialmente sfide necessarie, assolutamente necessarie per allontanare da noi un?inclinazione al peggio che oggi ci fa rasentare l?ignominia intellettuale e un insanabile noia.