Sono cittadino italiano da un mese. Da undici anni rifugiato in Italia. Nato in Kossovo 25 anni fa.
Cifre e date che affollano la mia mente da quando il pubblico ufficiale, davanti al quale ho giurato fedeltà alla Costituzione, mi ha detto testualmente “da oggi la comunità italiana ti dà il benvenuto”.
Di tutta la cerimonia per l’attribuzione della cittadinanza, questa è la frase che mi ha colpito di più.
Dopo undici anni, quasi la metà della mia vita, passati in Italia, solo ora sono il benvenuto.
Estraneo fino a un mese fa. Sembra essere questo il significato di quel benvenuto. Eppure tanta diversità non mi appartiene, non più.
Nelle orecchie non risuona più l’esplosione delle bombe, negli occhi il fuoco che incendiava la mia casa si è spento e l’odore della guerra che respiravo in Kossovo è sparito.
Ho imparato ad avere due patrie, ad essere diverso da quello che ero. Di mio padre porto il nome, onoro la memoria, ho lo stesso sangue, ma sono altro da lui e da quello che sognava per me.
Sono italiano. Non è la discendenza a dare la cittadinanza, è la sorte. Non puoi decidere. Chi sceglierebbe la guerra, la morte, la distruzione, la fuga?
Ora sono qui a Roma con parte della mia famiglia, scappato di notte, dalle bombe. In quel viaggio ho conosciuto la morte, mi è passata vicino. Mi ha schivato per puro caso.
Arrivato bambino ho dovuto capire, elaborare, superare. Troppo per la mia età e per la mia mente, un’enormità per il mio cuore.
Sono italiano, ma non da un mese, da tanto tempo e non so dire da quando. Forse da quando di notte ho cominciato a sognare in italiano? Da quando ho preso il diploma di maturità? Da quando ho capito che da grande volevo fare il cuoco? Da quando ho deciso che Barbara sarebbe stata il mio futuro?
Non so dire da quando, ma certamente non da un mese.
L’Italia è stata il Paese che mi ha protetto e ora è il mio Paese. Come lo è per mia madre, mio fratello, mia sorella e la sua bambina che aveva 2 mesi quando siamo arrivati.
A differenza di me e mia madre, gli altri non sono stati ancora chiamati per prendere formalmente la cittadinanza. Alla richiesta di spiegazioni il pubblico ufficiale ha fatto un vago riferimento a un nebuloso problema burocratico. Ho capito e annuito senza replicare. L’ennesima prova che sono italiano. Chi altri, se non un italiano, può accettare che un problema burocratico impedisca il riconoscimento di un diritto?

(Storia raccolta da Donatella Parisi del Centro Astalli)