Ora che è trascorsa una settimana dal viaggio del colonnello Gheddafi a Roma, proviamo a ripensare a mente fredda la sostanza dell’accaduto.
Al di là della boutade delle 500 hostess italiane assoldate (ma da chi? La stampa italiana in questo è stata fin troppo reticente) per fare da uditorio agli incerti contenuti religiosi proclamati dal leader libico.
Al di là del fatto grave – un vero e proprio scivolone del Governo – di non aver informato la presidenza della Repubblica della visita del colonnello.
Siamo troppo avvezzi alle paillettes della politica-avanspettacolo poterci stupire ancora delle esibizioni machiste e stonate cui certi nostri esponenti politici avanti con gli anni e con i capelli tristemente colorati ci hanno abituato. Tanto che lo stesso giornale della Conferenza episcopale italiana (Avvenire, 31 agosto) ha definito “una incresciosa messa in scena” quella allestita a fine agosto da e per il rais libico.
Il nocciolo della questione è che la Libia, nostro partner strategico da ben prima del Trattato del 2008, non rispetta la convenzione di Ginevra, eppure grandi sono gli interessi economici italiani in quel paese. Quello delle imprese che si contendono gli appalti per la realizzazione delle grandi opere infrastrutturali. Quello degli istituti bancari e delle società petrolifere che si approvvigionano di greggio e gas naturale. E quelli della politica che, non da oggi, ha cercato una sponda dall’altra parte del Mediterraneo per potersi ascrivere il merito di aver risolto il problema drammatico dei migranti che tentano il passaggio dall’Africa sub-sahariana e dall’Africa orientale in Europa attraverso la Libia. Suscitando il giusto sdegno di chi, come la Commissione di Giustizia e Pace Degli Istituti Missionari in Italia, si dedica all’assistenza degli esseri umani che rischiano la vita con la speranza di poter costruire un futuro per sé e le proprie famiglie in un altro paese.
Gli interessi economici, la conservazione del potere gettano in secondo piano il rispetto dei diritti umani. È storia vecchia, il resto è folklore.