La costruzione di un futuro capace di andare oltre l’autoreferenzialità di una vecchia politica e che sappia rimuovere le ragioni del corto circuito che si è andato alimentando tra società civile e politica che ha colpito un po’ tutti, non può che passare per una nuova stagione di forte moralizzazione dei comportamenti politici, di nuovi “esempi” direbbe Vittorio Foa e insieme per l’assunzione di scelte capaci di aggredire con decisione le ragioni sociali ed economiche dello scollamento e del profondo disagio sociale e civile.
Ci vorrà un lavoro lungo e faticoso per riconquistare la credibilità smarrita e il necessario consenso perché, anche se hanno aiutato, le primarie del PD non possono essere considerate sufficienti per recuperare il terreno perduto.
Così come il rinnovamento dei gruppi dirigenti non può avvenire semplicemente attraverso il criterio dell’età anagrafica.
La disaffezione verso la politica mostrata nelle elezioni regionali siciliane deve interrogare tutti.
La selezione deve avvenire soprattutto attraverso parametri riferibili alla competenza, onestà morale, esperienze sul campo dei singoli aspiranti dirigenti, rappresentatività vera.
Abbiamo sperimentato infatti anche a sinistra il fallimento di esperienze autoreferenziali per non dire e nepotistiche di giovani rampanti senza arte né parte promossi solo perché fedeli al “capo di riferimento”.
Un gruppo dirigente non può essere un corpo separato dal contesto politico che deve rappresentare, ne deve essere espressione. Anche di questa dicotomia, di questo limite abbiamo sofferto nel nostro ambito negli ultimi anni, incongruenza che ci ha indebolito, facendoci perdere radicamento sociale.
Non si esce dall’attuale situazione senza incidere sulle modalità di selezione del personale politico, sugli stili di vita collettivi e individuali, senza una battaglia per un nuovo sistema di valori su cui poggiare un nuovo modello di rappresentanza e un nuovo modello di sviluppo qualitativamente superiore.
Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che non essendo più praticabile la pratica autoreferenziale e il connesso vecchio e nuovo assistenzialismo rispetto ad una crisi epocale, non c’è altra strada che quella di investire in nuove attività e settori ovvero in quei campi troppo spesso dimenticati ma che per il nostro paese rappresentano la strada maestra per conquistare una reale prospettiva in termini di nuovo sviluppo e di lavoro.
Dovrebbe essere altrettanto chiaro che per battere definitivamente quel che resta del Berlusconismo serve una energia prima ancora culturale che economica, che sconfigga molecolarmente quella tendenza che si è radicata in profondità nel tessuto sociale e che ha fatto prevalere l’egoismo economico e sociale su una moderna idea di convivenza, le logiche di un mercato senza regole subalterno alle grandi lobbies economiche sull’interesse collettivo.
Basta al riguardo riflettere su come i processi di liberalizzazione sono stati gestiti nel nostro paese, anche a causa dei nostri ritardi, cioè secondo la logica della privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite, col risultato di mantenere il gap con gli altri paesi.
Se è vero come è vero che quella che stiamo vivendo è la più grave crisi strutturale, decisivo allora sarà recuperare pienamente la nostra vocazione trasformatrice, la sola che può consentirci di recuperare un rapporto non più occasionale non solo con le generazioni più giovani.
Finché non sapremo trasmettere un’idea di futuro, un futuro concretamente eco-solidale, abbandonando gli sterili e astratti dibattiti anche a sinistra su quella “idea di modernità” basata sulla inevitabilità di una contrapposizione generazionale quale mezzo per rispondere alla crisi e sull’abbandono della solidarietà sociale come valore fondante di un nuovo sviluppo, non rilanceremo la nostra funzione peculiare in modo convincente e duraturo.
Spesso si sente dire al nostro interno che dobbiamo saper trasformare la crisi in una opportunità per cambiare profondamente.
E’ assolutamente vero, ma allora serve una rinnovata capacità progettuale per stare nel cuore del paese reale, indicando innanzitutto alcune priorità emblematiche e dal forte impatto sociale ed economico, su cui costruire un nuovo patto tra le generazioni e tra le forze fondamentali del paese.
Ma ci rendiamo conto del cambiamento che ha investito il mondo del lavoro e di conseguenza del rapporto tra lavoratori e politica oggi?
I profondi processi di ristrutturazione che hanno investito le grandi categorie stanno infatti evidenziando crepe nei vecchi schemi di rappresentanza e tutela.
Diminuisce l’attrattività del sindacato, soprattutto tra i giovani e aumenta la tendenza alla risposta individuale, corporativa e alla fidelizzazione da parte aziendale.
Il risultato è quello di un bicchiere sempre più, mezzo vuoto.
Insomma si sta affermando in uno spaccato sociale tanto importante quanto sempre meno organico per le forze progressiste, una condizione di solitudine, separatezza che porta sempre più spesso ad riconoscere la controparte aziendale come il punto di riferimento in termini di valori, lasciando al sindacato invece l’esercizio di una funzione sempre più residuale, comunque inadeguata rispetto alle dinamiche interne al mondo del lavoro attuale.
I Contratti collettivi non riescono più a rappresentare bisogni, interessi, diritti del mondo del lavoro in carne ed ossa in misura sufficiente, mentre cresce a dismisura una discrezionalità della controparte aziendale che sfocia troppo spesso nel libero arbitrio, nell’attacco a diritti fondamentali.
Si sta diffondendo da tempo insomma una evidente precarietà e separatezza che partendo dal luogo di lavoro si irrora nelle varie pieghe della società.
Lontanissime sembrano le immagini della grande stagione del sindacato unitario che tante conquiste sociali, economiche, democratiche ha permesso di conseguire e che ha consentito alle forze politiche progressiste e di sinistra di crescere.
Quell’epoca è stata possibile grazie proprio al clima che nei luoghi di lavoro, nelle scuole e università, nelle pieghe del paese con pazienza e determinazione si riuscì a determinare e non ultimi ai buoni esempi offerti.
Come allora servono obiettivi, riferimenti, linguaggi comuni, comprensibili e al tempo stesso mobilitante, servono nuovi esempi coagulanti che ci facciano percepire di nuovo senza più perplessità dalla testa e dal cuore della gente come la vera alternativa nell’interesse del paese.
Questa è la missione che deve guidare il futuro gruppo dirigente del centro sinistra, se si vuole davvero, parafrasando il suggestivo titolo scelto dallo stesso Bersani per la propria mozione all’ultimo congresso del PD: “dare un senso a questa storia”che a più mani e col concorso di esperienze diverse si è deciso di scrivere, non solo in virtù di un passato, ma soprattutto con l’ambizione di ridare più in generale senso e dignità al futuro di ogni individuo indipendentemente dall’età, dalla differenza di genere, dalla pelle.