1. Il d.d.l. “Norme in materia di assetto del sistema radiotelevisivo”, meglio conosciuto come Legge-Gasparri, si propone come il primo provvedimento organico volto a regolamentare una materia, le trasmissioni radiotelevisive appunto, che in Italia sono state oggetto di molte, troppe disposizioni frammentarie e transitorie.
La difficoltà a regolamentare organicamente e definitivamente la materia di tale settore è figlia, a sua volta, di una situazione storica del nostro paese che non può mai essere dimenticata: il ruolo cioè del tutto speciale della televisione nella lotta politica italiana, ruolo collegato sia ad un problema culturale (la politica come immagine) sia alla presenza di Mediaset come soggetto non solo industriale (come in tutto il mondo) ma di fatto anche politico.
Conseguentemente il sistema radiotelevisivo è retto attualmente da un coacervo complicato e non coerente di norme che riguardano, ad esempio, l’assetto e il meccanismo di nomina della RAI, le disposizioni Cee sulla trasparenza del canone, le norme sull’assetto del sistema, gli obblighi di sostegno del sistema audiovisivo nazionale, limiti alla pubblicità, lo sviluppo del digitale terrestre etc.
Di particolare rilievo è, in questo contesto, il problema dell’assetto del sistema, per il quale le disposizioni vigenti costituiscono norme transitorie varate al solo scopo di consentire la prosecuzione dell’attività di Rai e Mediaset dopo la sentenza della Corte Costituzionale che, nel 1994, aveva sentenziato che nessun operatore poteva disporre di più di 2 reti nazionali, nel contesto tecnologico esistente.
Nell’impossibilità di regolare compiutamente la materia e, nel contempo, di accettare l’immediata chiusura di reti ormai consolidate, la soluzione trovata nel 1997 era stata quella di prevedere un periodo di deroga sufficientemente ampio dopo la quale ci sarebbe stato:
– il trasferimento su satellite di una rete Mediaset;
– l’eliminazione della pubblicità da una rete RAI (Rai 3).
I tempi di queste misure di deconcentrazione dovevano essere stabiliti dall’Authority sulle telecomunicazioni, che sia pure con ritardo, li ha fissati improrogabilmente al 31.12.2003 (9 anni dopo la sentenza della corte).
Nel contesto descritto il d.d.l. Gasparri appare quindi come la prosecuzione – da parte della maggioranza di Governo uscita dalle elezioni del 2001 del tentativo di regolamentare definitivamente il settore già tentato a lungo, ma senza successo, dalla precedente maggioranza.
A fronte di questo comune obiettivo organico, l’orientamento del d.d.l. Gasparri è tuttavia profondamente diverso, come ovvio, rispetto agli orientamenti precedenti. Gli elementi principali del provvedimento riguardano infatti:
– L’enfasi sul c.d. digitale terrestre cioè su un sistema di trasmissione digitale non via satellite, che consente sul piano tecnico un ampliamento di 4/5 volte dei canali nazionali trasmissibili (da circa 10/12 a circa 40/50). Si ricordi che in Italia è previsto da una legge varata dal precedente Governo il passaggio dal sistema analogico al digitale entro il 2006.
– La modifica dei sistemi di riferimento per il calcolo dei limiti delle risorse economiche acquisibili da un singolo operatore. Attualmente è previsto che nessun operatore possa avere più del 30% delle risorse del sistema (pubblicità più canone). La nuova normativa fissa tale limite al 20%, ma allarga il sistema di riferimento al c.d. Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC) che comprende non solo attività televisive ma anche editoriali, pubblicitarie, di telecomunicazioni, internet etc.
– Un nuovo meccanismo di governo della RAI basato su un Consiglio d’Amministrazione di 9 membri (oggi 5) nominati dall’Assemblea degli azionisti (Ministero dell’Economia) ma su indicazione dei Presidenti di Camera e Senato, in attesa della privatizzazione della RAI. Il Presidente, nominato dal Consiglio, deve ottenere il parere favorevole della Commissione parlamentare di vigilanza sui servizi radiotelevisivi, con una maggioranza pari ai due terzi dei suoi componenti.
– La progressiva privatizzazione della RAI.
Il d.d.l. contiene numerose altre disposizioni di varia natura, tra cui numerose dichiarazioni di principio sul ruolo e la funzione del sistema radiotelevisivo; di fatto, però, il dibattito politico e l’interesse della stampa (nonché i rilievi del Quirinale) si sono concentrati sui punti descritti che costituiscono in qualche modo la novità del provvedimento e, soprattutto, determinano conseguenze pratiche di grande rilievo sia su RAI che su Mediaset.
2. Un’analisi spassionata del provvedimento non può che partire da una premessa che riguarda tutti gli schieramenti politici degli ultimi anni: a 10 anni di distanza dalla sentenza della Corte Costituzionale, il legislatore italiano, non è riuscito a regolamentare la materia se non con provvedimenti estemporanei o transitori, a riprova che le norme sulla televisione costituiscono, in Italia e nellìattuale fase storica, un argomento pressoché intrattabile.
Da questo punto di vista uno sforzo normativo organico costituisce di per sé un tentativo da considerare con attenzione.
Sotto il profilo delle soluzioni proposte, peraltro, il d.d.l. Gasparri si presta a non poche considerazioni critiche che riguardano, in particolare:
– il digitale terrestre: il digitale terrestre è una tecnologia che consente la diffusione di segnali digitali senza l’uso del satellite; esso costituisce certo un’opportunità, sia per accrescere il business delle comunicazioni, sia per ampliare gli spazi dell’etere. Tuttavia non bisogna mai dimenticare che nessuna tecnologia è di per sé un destino (molte anzi, anche innovative, sono spesso fallite sul piano industriale).
Conseguentemente tarare tutte le norme del sistema ed in particolare quelle Antitrust in relazione allo sviluppo certo del digitale terrestre appare, nella migliore delle ipotesi, una forzatura modernista e, nella peggiore, un semplice pretesto per mantenere lo statu-quo esistente. Con la promessa di un futuro tecnologico e pluralista nel quale si svilupperanno nuovi soggetti, si rischia sostanzialmente di aggirare la disposizione costituzionale, non regolando il molto concreto presente (duopolio Rai-Mediaset) che da 20 anni costituisce l’assetto di fondo della nostra televisione.
Per onestà occorre ricordare che questa enfasi tecno-futurista sul digitale terrestre è stata alimentata anche da precedenti governi, che con un ottimismo invero audace hanno fissato al 2006 il passaggio dal sistema attuale (c.d. analogico) al digitale terrestre; cioè tra soli 3 anni tutti gli italiani dovrebbero essersi dotati di un decoder ad hoc (oggi se ne trovano in circolazione solo 10.000) ovvero dovrebbero aver sostituito i 45/50 milioni di televisori oggi disponibili!
L’implausibilità di questa ipotesi rafforza il sospetto della strumentalità della norma che, nell’immediato, ha il solo effetto di consentire a Rete 4 di trasmettere oltre il 31.12.2003 ed alla Rai di conservare la pubblicità su tutte e tre le reti.
– Il SIC: l’ampiezza e, soprattutto, l’indeterminatezza del c.d. “Sistema integrato della comunicazione”, vanifica di fatto le norme Antitrust del settore. Non a caso su questa disposizione si sono concentrate le critiche più accese nonché gli appunti del Quirinale. Se le risorse economiche del sistema pubblicitario devono essere limitate per un singolo operatore, la base di calcolo del mercato di riferimento deve essere definita in maniera più rigorosa e, soprattutto, misurabile con certezza.
Il tema della dimensione ottimale del mercato e dei suoi operatori, inoltre, dovrebbe essere dimostrata con studi ed approfondimenti seri che consentano di valutare anche l’opportunità o meno di allentare o restringere gli spazi attuali, in funzione degli sviluppi del mercato internazionale.
– Il governo della RAI: le nuove disposizioni, salvo allargare il campo dei pretendenti politici (da 5 a 9) non fanno nulla per affrontare il nodo dell’autonomia di gestione della RAI. Su questo tema si sono infranti negli ultimi anni decine di consiglieri e dirigenti dell’azienda che, in 10 anni, ha avuto più di 6 o 7 presidenti ed oltre 10 direttori generali.
E’ evidente che, qualora si creda ancora nell’opportunità di mantenere un Servizio pubblico radiotelevisivo, occorre un meccanismo strutturale di definizione del suo governo che lo tuteli, più che in passato, rispetto alle pressioni dell’ambiente esterno. Il problema non è certo solo tecnico, esso affonda le sue radici nell’assenza, in Italia, di una cultura liberale, in grado di rispettare, anche in caso di dissenso, l’autonomia professionale degli operatori televisivi; d’altra parte è pur vero che molti dirigenti e giornalisti RAI si prestano volentieri a logiche di sudditanza rispetto a poteri esterni. Occorrerebbe pertanto un cambiamento non tanto normativo quanto di etica e prassi professionale; tuttavia in attesa di ricostruire una decente rete di competenze nell’azienda è certo indispensabile uno schermo più solido verso le pressioni esterne. La soluzione è certo complessa (creazione di una Fondazione, nomine da parte di soggetti indipendenti, comitati di garanzia etc.) e ogni ipotesi si presta a possibili critiche. E’ certo però che nel d.d.l Gasparri nulla è previsto in questo senso, anzi, di fatto si affida definitivamente la gestione dell’azienda ai soli titolari di interessi politici.
– Privatizzazione della RAI: il tema è importante e potrebbe costituire l’unico reale sbocco alle disfunzioni del governo RAI, qualora si dovesse prendere atto dell’impossibilità storica di avere in Italia contrariamente al resto dìEuropa un servizio pubblico efficiente ed autonomo professionalmente. Tuttavia anche sotto questo profilo le disposizioni del d.d.l Gasparri appaiono velleitarie e poco efficaci. Infatti:
a. nulla è previsto circa il riassetto industriale ed organizzativo dell’azienda; nelle attuali condizioni infatti, la RAI non è economicamente collocabile sul mercato se non con una profonda ristrutturazione industriale che ne orienti strategia e azioni nel lungo termine;
b. la definizione del canone (che costituisce il 60% dei ricavi dell’azienda) è di fatto affidata alla buona volontà del Ministero delle Comunicazioni che lo fissa “in misura tale da consentire alla società concessionaria… di coprire i costi”. Nessun investitore serio, nazionale od internazionale affiderebbe i propri risparmi ad una discrezionalità politica così evidente. Come nel caso di altre concessionarie pubbliche (Autostrade, Aeroporti di Roma etc.) la privatizzazione della RAI in toto presuppone una revisione rigorosa delle convenzioni esistenti che fissi con chiarezza impegni ed obblighi reciproci e soprattutto consenta la piena trasparenza nella determinazione delle risorse economiche attraverso formule oggettive (ad es. price-cap) verificabili da tutti;
c. il limite dell’1% al possesso azionario per qualsiasi investitore, scoraggia altresì qualunque grande soggetto industriale dall’entrare nell’operazione, tanto più che, sul mercato, già esiste un operatore privato consolidato e fortissimo che non ha i limiti ed i vincoli della RAI sulla competizione commerciale.
In definitiva le disposizioni sulla privatizzazione sembrano esprimere piuttosto un “tributo formale” alla pubblicistica corrente che non una effettiva volontà privatizzatrice.
L’insieme di queste considerazioni induce, inevitabilmente, a critiche serie alle disposizioni proposte dal d.d.l. Gasparri sotto il profilo dell’effettiva volontà ed efficacia rinnovatrice del provvedimento. Di reale e concreto resta pertanto – e questo mi pare in definitiva il reale motivo del contendere – la conferma e la legittimazione dell’assetto industriale vigente, in attesa di futuri e, chissà forse, più felici tentativi di regolamentare definitivamente la materia.