Negli ultimi tempi si è discusso sull?opportunità e la liceità degli interventi dei vescovi e del clero italiano in questioni considerate proprie della politica. C?è chi sostiene che si tratti di ingerenze nello Stato laico, c?è chi ritiene che invece la Chiesa abbia il diritto e il dovere di far ascoltare la propria voce anche in temi che sono oggetto di leggi del Parlamento.
A me pare che il ragionamento da fare sia molto semplice. Primo: non ci sono questioni della politica dalla quali qualcuno, chiunque esso sia, a qualunque classe sociale, economica e culturale appartenga, qualunque sia il suo credo religioso, dovrebbe restarne fuori. La politica è per tutti e di tutti.
Secondo: se chiunque nel nostro Paese può esprimere la propria opinione, perché a noi sacerdoti, ai vescovi, e ai cattolici in generale, dovrebbe essere impedito di farlo o li si dovrebbe costringere a parlare da ?cittadini? e non anche da ?cristiani?, come se le due sfere fossero facilmente separabili o addirittura inconciliabili?
E terzo: ogni cittadino sarà poi libero di condividere le opinioni degli esponenti del mondo cattolico, della sua gerarchia o di chi comunque tale si professa, oppure no.
Il Vangelo ricorda il celebre episodio in cui i discepoli dei farisei cercano di mettere in imbarazzo ?politico? Gesù mostrandogli la moneta coniata dagli oppressioni romani. Gesù, molto semplicemente e chiaramente, invita a ?rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio?. Esistono infatti la fede in Cristo e il radicamento nella vita terrena: ma non sono, non possono essere due cose separate o addirittura in contraddizione fra loro.
Peraltro a me sembra di poter interpretare, anche nell?attualità, le parole del Cristo del Vangelo, nel mondo seguente. Da un lato, dobbiamo evitare il grande rischio di identificare Chiesa e realtà politica, perché questo significherebbe desiderare una società integralista e non riconoscere più la libertà religiosa. Dall?altro, dobbiamo evitare il pericolo di inserirci nella vita sociale e politica in un modo così radicale da compiere le nostre scelte indipendentemente dalla fede: come se il nostro cristianesimo sia qualcosa da vivere soltanto nelle case e nelle chiese, senza che i nostri convincimenti morali, etici, sociali debbano riflettere le ragioni della nostra fede.
Mi è stato chiesto: ma se arrivassimo al punto di sentir dire che votare per chi sostiene questa o quell?idea, questa o quella legge, rappresenta un peccato, o comunque un venir meno alla propria coerenza di cattolico? Personalmente ritengo che vi siano state alcune strumentalizzazioni in ciò che abbiamo letto e ascoltato di recente al proposito.
Quando si è chiamati al voto occorre esprimersi in favore del candidato o del gruppo più vicino ai propri convincimenti. Ma non penso sia possibile trovarne uno ?perfetto?. E qualora riuscissimo a trovarlo, questo poi dovrebbe governare e fare politica sempre insieme ad altri, dunque accettando le necessarie mediazioni con le opinioni altrui.
Il punto centrale mi sembra invece un altro: e cioè che i cattolici troppo spesso delegano in politica, si disinteressano, oppure ritengono che la loro fede personale sia una cosa del tutto separata e separabile da un impegno civile in mezzo alla società. Per me ciò è sbagliato: la testimonianza delle propria fede deve esprimersi nel pubblico oltre che nel privato, in ogni circostanza. A partire dalla propria vita personale, dalla famiglia, dalla parrocchia, dal posto di lavoro certamente, ma anche oltre.
Paolo VI parlava esplicitamente di politica come ?forma esigente della carità?. Invece molti cristiani ritengono che occuparsi di politica sia una cosa ?sporca? e vivono la loro fede in modo intimo e nascosto, oppure, se vogliono dare un contributo alla soluzione dei problemi di altri, si dedicano al volontariato.
Questo atteggiamento implica due rischi. Il primo è quello di contribuire ad alimentare un volontariato che si pone in contrasto con l?istituzione considerata inerme e con il politico giudicato incapace o interessato esclusivamente al potere e non al servizio dei cittadini. Il secondo rischio, che purtroppo è in parte una realtà, priva la politica di una presenza cristiana davvero valida e diffusa. E invece anche la politica può essere un grado elevato di carità vissuta.
D?altra parte, dovremmo essere coscienti di tutte le immense potenzialità del volontariato ma anche dei suoi limiti. Proviamo a domandarci; il volontariato è sufficiente per eliminare la fame, la sete, le guerre, le ingiustizie del mondo, o non servono scelte politiche giuste, alte, aperte al futuro? Certo, il volontariato può per primo percorrere certe strade difficili, può far strada alle istituzioni, può intuire con fantasia e freschezza, può sensibilizzare, sollecitare le coscienze, ma poi… poi è la politica che opera le scelte più importanti, e i politici non possono essere sempre ?altro? dai cristiani e dalla gente che vuole spendersi perché ci sia meno sofferenza intorno a sé.
I cristiani che fanno politica non sono e non devono essere uno scandalo per nessuno, se quella politica è in linea con i loro princìpi morali, in armonia con la propria etica e sensibilità fondata sulla solidarietà, sul senso di responsabilità, sulla massima onestà. Occorre anche un?altra virtù, che mi pare sempre più dimenticata nella società dell?opulenza, della trasgressione come regola, del tutto e sùbito, dell?iperbole. Sto parlando della prudenza.
Non a caso la prudenza è una virtù cardinale e perfino Gesù, nel Vangelo, invita a essere sì semplici come colombe, ma anche prudenti come serpenti (e non astuti, come traduce qualcuno). Prudenza come guida della vita morale, non certo un insieme di calcolo, compromesso, indecisione, debolezza, opportunismo, come spesso viene oggi intesa.
Un tempo si usava dire che la prudenza somiglia al direttore d?orchestra, che non suona alcuno strumento, ma che è indispensabile perché dice a ogni orchestrale quando, come e quanto deve suonare. Le altre grandi virtù, come la giustizia, la fortezza e la temperanza non recano in sé la misura dei propri atti. Facciamo l?esempio di una persona che, profondamente religiosa, sia indotta a dedicare molte ore alla preghiera sottraendola ai propri doveri familiari, lavorativi, sociali. La prudenza deve aiutare questa persona a non trasformare un atto di religione in un comportamento di ingiustizia nei confronti di coloro ai quali essa deve dedicarsi. Allo stesso modo, pensiamo a chi confonde la propria fortezza con l?ostinazioe, sino al fanatismo; o a chi sotto il velo della temperanza e della sobrietà cela in realtà propria avarizia o la propria trasandatezza e rozzezza d?animo.
Esiste una prudenza per la vita personale, per la vita familiare e perla vita sociale. Su quest?ultimo punto vorrei attirare l?attenzione, perché l?uomo non può pensare soltanto al bene proprio e della sua famiglia, ma anche al bene comune. E in questa sua cittadinanza attiva, che può giungere fino all?impegno politico diretto, la prudenza è fondamentale sia per desiderare il bene della società (che dovrebbe essere l?obiettivo principe di qualsiasi politico), sia per poi svolgere correttamente il compito di organizzare e promuovere il bene comune (cioè di conseguire al meglio quell?obiettivo), vincendo la tentazione di mettere il bene comune al servizio del proprio o al servizio di quello di una categoria, oppure di una ideologia.
Basti pensare alla prudenza necessaria per affrontare i delicati temi bioetici e genetici di fronte ai quali i progressi della ricerca scientifica ci pongono sempre più spesso, sfidando la questione centrale della dignità della persona e dei diritti umani.
Vorrei proporre un altro esempio molto pratico. L?economia dei Paesi poveri e dove maggiori sono le ingiustizie sociali può migliorare se i Paesi ricchi decidono di essere un po? meno ricchi e se i loro governanti operano, con mezzi pacifici, perché in quei Paesi ci sia anche più democrazia e più attenzione a far fronte ai problemi di salute psicofisica e sociale delle popolazioni. È quello che, in microscala, fa il volontariato. Ma ovviamente non basta. È necessario che una diversa sensibilità e prudenza contagi la classe politica in Occidente, e di questa sensibilità sono certamente portatori anche e talora soprattutto i cristiani.
Oggi alcuni Paesi asiatici, grandi ma tradizionalmente poveri, si stanno risvegliando, la loro economia cresce e incide sui nostri interessi economici. Alcuni politici e industriali ci stanno presentando la nuova situazione come un grave pericolo contro il quale dobbiamo urgentemente reagire. Siamo insomma i ricchi che cercano di difendere la propria cittadella dall?assalto dei poveri.
Quando ragioniamo così, non dobbiamo dimenticare che la nostra ricchezza si fonda in gran parte proprio sulla povertà e sullo sfruttamento di alcuni miliardi di uomini. Se la Cina o l?India o altri Paesi salgono alla ribalta nel commercio, dov?è l?ingiustizia? Dobbiamo continuare a vendere a 200 euro un paio di scarpe, per le quali la ragazzina indiana che le ha materialmente prodotte riceve sì e no 50 centesimi? Qualcuno mettere in guardia: il nostro pil, il prodotto interno lordo, è destinato a ridursi. Ebbene, saremo meno ricchi.
Certo, a pagare non devono essere ancora una volta i poveri delle nostre città. E certo, non è tollerabile che quelle economie asiatiche o di altri Paesi poveri si basino su uno sfruttamento disumano dei lavoratori. Ma se questi due gravi pericoli fossero evitati, perché spaventarci? Avere in Italia dei ricchi un po? meno ricchi può essere una grande fortuna. Anche i ricchi, i troppo ricchi… piangono, come ci mostra impietosamente la cronaca. E se diminuisse il peso del proprio corpo e il peso delle preoccupazioni su come investire i propri miliardi, non potrebbero crescere in parallelo il peso dell?intelligenza, la speranza e la gioia di vivere?