The take, La presa, ma di che cosa? Qualcuno potrebbe pensare alla presa del potere, qualcun?altro alla ripresa della propria dignità o, ancora, altri potrebbero pensare ad una presa di coscienza.
Il documentario è prodotto da una casa canadese nel 2004 e narra la storia di trenta ex-operai argentini, caduti in disgrazia sotto i colpi della globalizzazione, che occupano la loro ex-fabbrica abbandonata, cercando di riattivarne la produzione.
L?autogestione dei mezzi di produzione non è mossa da motivazioni ideologiche, per molti versi stroncate dai colpi inferti dalla dittatura del colonnello Cavallo, né costituita dall?alto da una nomenclatura socialista, ma dalla forza della disperazione di una comunità ridotta alla fame. Il documentario articola significativamente il dramma sociale, un conflitto tra il ceto possidente e quelli subalterni, che si concretizza nella desolante immagine della contrapposizione frontale tra la polizia e un popolo affamato, che cerca di mantenere il possesso della fabbrica nei confronti delle pretese dei legittimi proprietari, appoggiati dalla classe politica e intenzionati a riprendersi il mal tolto, proprio adesso che tornano ad essere a pieno regime la produttività e i profitti. Nella narrazione sono presenti altri tipi di conflitti, come quello culturale, politico e infine giuridico.
L?autogestione implica che gli operai non possono più approfittare delle libertà che gli vengono concesse, non sono soggetti più a nessun capo, devono produrre per sé stessi, sono responsabilizzati, non sono più merce di scambio o proprietà del padrone, cose, ma uomini, che sanno di non poter contare su nessun salvatore, come Menem o Kirsch, i candidati alla Presidenza dell?Argentina, dei primi anni novanta, ma unicamente sulle proprie braccia e la loro volontà di andare avanti nonostante tutto.
I primi anni novanta sono gli anni delle autogestioni, nascono ambulatori e scuole autogestite. La solidarietà tra gli operai si riscontra non solo all?interno, ma anche fra le altre fabbriche occupate e autogestite, che intessono importanti relazioni produttive, nella divisione del lavoro, spesso abbassando non solo i costi di produzione, ma anche quelli di vendita e favorendo l?occupazione di nuova manodopera.
Rinascono così centinaia di fabbriche, che danno lavoro a migliaia di persone, ma i creditori e gli ex-proprietari vogliono ciò che gli spetta, ossia i profitti e la proprietà. Le attività vengono bloccate per gli sgomberi della polizia, che determinano gravi scontri sociali e le comunità rivedono affacciarsi lo spettro della disperazione e della fame.
Sul fronte politico i delegati delle fabbriche si organizzano per far passare una legge che di fatto legittimi l?esproprio, in questo caso esproprio proletario. Una simile legge è difficile da accettare per gli stati liberali che si fondano sul diritto di proprietà, considerata inalienabile, eccetto che per lo stato, ma non per i cittadini. Inoltre la costituzione argentina legittima il diritto di proprietà, con molti meno limiti, di quanto non pongano stati di tradizione più democratica, come ad esempio nel caso dell?Italia. Incredibilmente, però, dopo insistenti pressioni popolari, il parlamento argentino accetta la proposta legislativa sull?esproprio presentata dagli operai.
A questo punto le fabbriche sgomberate vengono riaperte e gli Argentini tornano a sperare, con l?aiuto delle proprie braccia e della propria testa. Tale storia reale potrebbe essere interpretata, con un teorema di pasoliniana memoria, come il tentativo della classe operaia di riprendersi la propria dignità dall?oblio a cui era stata relegata, da decenni di politiche culturali ed economiche condotte dai ceti dirigenti Occidentali. La stagione di lotte per il riconoscimento di diritti sociali che contraddistingue la classe operaia, fin dalla fine della seconda guerra mondiale in varie parti del modo, rappresenta a detta degli storici, un fattore di notevole progresso socio-economico per tutte le democrazie liberali. Il benessere economico di queste nazioni è pagato con l?affermazione di modelli culturali e sociali consumistici, fortemente sostenuti dai governi filoamericani, come è possibile constatare ancora oggi guardando la rete televisiva di stato, che svuotano di senso quella carica di critica sociale, che contraddistingue i movimenti di protesta studenteschi e quelli operai, tra gli anni sessanta e gli anni settanta.
Quando arrivano le crisi economiche negli anni settanta, la classe operaia non ha più quelle difese culturali e sociali capaci di contrastare l?offensiva neoliberista del padronato e ridotta di numero, acritica, indifesa finisce per capitolare, accettando le scelte di ristrutturazioni sociali ed economiche, imposte dalla classe dirigente. In questo modo viene aperta una prospettiva di estrema reificazione della forza lavoro, che in Italia trova il suo apice con le scelte odierne neoliberiste di precarizzazione del mercato del lavoro.
Quali sono le considerazioni che si possono fare sulla base di tale documentario? In primis valutazioni di carattere etico, è da notare, infatti, come il termine legalità non è un accezione neutra, ma contraddistingue un tipo di ideologia di classe, in questo caso, di quella dominante. Di fatti di fronte la necessità sociale di espropriare i mezzi di produzione inattivi, viene opposto il veto del diritto di proprietà, considerato come inalienabile. Quindi tutti gli sforzi per ristrutturare le fabbriche ed i profitti andrebbero a vantaggio dei proprietari o dei loro creditori, che così otterrebbero quanto gli spetta per legge.
Con tali premesse possiamo ben dire che il concetto di giustizia espresso nelle leggi degli stati, compreso le democrazie occidentali, si fonda ontologicamente su un?ideologia di un ceto dominante, così come è espresso nella ?Genealogia della morale? di Nietzsche e che storicamente muta di significato con l?alternarsi di tali ceti, alla guida di un determinato paese. Ciò significa che negare la legittimità di un determinato valore, sostenuto da un?istituzione, espressione di un particolare referente socio-economico, significa metterne in crisi la credenza popolare su cui si fonda e quindi delegittimare il potere di tale referente.
Qualcuno potrebbe dire che questa dinamica dell?affermazione del valore della giustizia è necessaria per mantenere la stabilità di un paese. Allora come si spiega che in Italia persone considerate clandestine possano essere segregate in dei lager senza aver commesso nessun reato, ma solo un?infrazione amministrativa, punibile con una multa, come avviene nella Corea del Nord per gli oppositori politici e negli Stati Uniti, per coloro che sono di confessione mussulmana, reclusi sulla base della presunzione di colpa, vecchio retaggio dell?Ancien Regime, spazzato via dall?avvento dell?Illuminismo? Inoltre come mai nei recenti scandali di fruizione di materiale pedo-pornografico, in cui sono coinvolti molti esponenti della classe dirigente italiana, tra cui diversi amministratori pubblici, la reclusione può essere sostituita con una semplice quantità di carta in filigrana, capace di pulire addirittura la fedina penale del condannato, reso di nuovo al suo candore morale? Non è questa la giustizia secondo una determinata ideologia, di una classe dominante, che fonda la sua legittimità sul capitale, così come storicamente sancisce l?avvento della Rivoluzione Francese?
Un?altra considerazione potrebbe essere quella di vedere nell?occupazione di spazi sociali ed economici una risposta in generale alla globalizzazione, come avviene in Italia con l?occupazione delle case vuote o come suggerito dal documentario con quella dei siti produttivi abbandonati, a causa delle ristrutturazioni industriali? Ciò non responsabilizzerebbe gli individui nel cercare di essere protagonisti del proprio futuro, senza sperare in un aiuto dall?alto e dando così maggior senso spirituale alla propria vita?
Inoltre la crisi aperta sul vulnus del diritto di proprietà non dimostra che i rapporti sociali e culturali in uno stato capitalista sono ontologicamente conflittuali, anche se teoricamente conciliabili?
Recensione del documentario di Naomi Klein, diretto dal giornalista canadese Avi Lewis