Lo sappiamo tutti benissimo: il periodo economico non è florido e una riduzione delle spese della Pubblica Amministrazione è da sempre auspicata e quasi mai attuata. In particolare c’è un settore di questa che viene puntualmente indicato dai vari esponenti della Società dell’Informazione come puro sperpero di denaro: la spesa per i software proprietari, in particolare quelli targati Microsoft. Eppure è questo un settore in cui una revisione della politica di acquisto è non solo auspicabile, non solo possibile, ma già oggi fattibile con l’adozione di software ?open source?.
Sono ormai moltissime le iniziative di sensibilizzazione a questo proposito promosse da associazioni o gruppi di utenti da diversi anni a questa parte, che spiegano in dettaglio quali sono le strade possibili da percorrere, considerando anche le scelte già fatte in altre realtà europee, come la municipalità di Monaco di Baviera, il ministero della difesa francese, il ministero delle finanze danese, o nel resto del mondo, in Venezuela, Brasile e Cina, per citarne alcuni.
Dati alla mano, solo nel 2004 per l’acquisto di software proprietari e hardware adeguato, sono stati spesi quasi 1 miliardo di euro dalle sole amministrazioni centrali. Senza contare università, scuole ed enti di ricerca, comuni e via dicendo, che spendono migliaia di euro l’anno nemmeno per l’acquisto di software proprietari, ma solo per il diritto all’uso di questi.
L’aspetto interessante è che già nel 2003 il Ministero dell’Innovazione presieduto da Stanca aveva diffuso una indagine intitolata ?Usare l’open source nella Pubblica Amministrazione? segno che anche dall’interno qualcosa si sta muovendo, mentre a livello europeo il MERIT, il centro di ricerca sulle tecnologie dell’Università delle Nazioni Unite con sede a Maastricht, più recentemente ha pubblicato il documento ?Studio sull’impatto economico dell’open source sull’innovazione e competitività dell’ICT in Europa?. Basterebbe quindi far incontrare queste sinergie per ottenere dei risultati concreti. Ma il dubbio che si possa raggiungere questa utopia permane nelle coscienze di molti, fino a quando personaggi quali Bill Gates vengono invitati in Parlamento con tutti gli onori, mentre Richard Stallman, sostenitore dell’alternativa open source, non viene minimamente considerato, se non in qualche convegno organizzato da poche lungimiranti università, nonostante una sua recente lettera aperta al Parlamento italiano (maggio 2005).
Ma non si tratta semplicemente della classica guerra di religione fra sostenitori del codice aperto (Linux in primis) e del codice proprietario ma ?di facile utilizzo?: il problema investe un orizzonte ben più ampio, ossia la possibilità (per certi versi necessità) che lo Stato italiano disponga del codice sorgente dei programmi e sia quindi in grado, diversamente da com’è ora, di modificare gli applicativi adattandoli alle proprie esigenze senza dipendere da terzi, in particolare da società estere. Anche ipotizzando che il software venga regalato alla PA, nel breve periodo si risparmierebbe forse il prezzo del prodotto, ma nel medio-lungo i costi ricadrebbero sia sui cittadini, obbligati a pagare loro per i software proprietari, per poter interagire con i servizi dello Stato, sia sullo Stato stesso in quanto continuerebbe a non avere alcun controllo sulle tecnologie che trattano dati importanti e sensibili (difesa, interni, sanità, economia per citarne alcuni) lasciando questa possibilità ad un soggetto terzo, privato ed estraneo allo Stato italiano, oltre a dover cambiare le macchine ogni paio d’anni per far fronte alle sempre più scandalose richieste di memoria ed elaborazione richieste dagli aggiornamenti di sistemi operativi ?imposti?.
Le alternative ai programmi Microsoft ci sono già: al posto di Windows XP o del prossimo mastodontico Windows Vista ci sono letteralmente centinaia di distribuzioni Linux fra cui scegliere; in sostituzione dei programmi di Microsoft Office è già diffuso e affidabile il pacchetto OpenOffice.Org (grazie al quale ho scritto questo pezzo); convertire i vari programmi di contabilità ed anagrafica in soluzioni a codice aperto non solo svincola dalla dipendenza da un unico software proprietario, ma permette una maggiore libertà di scelta, anche creativa, per usare un prodotto effettivamente adeguato alle reali esigenze. La conversione può essere fatta per gradi, installando prima le versioni degli applicativi in ambiente Windows e successivamente cambiando l’intero sistema operativo. Questo consentirebbe di risparmiare anche sui costi di manutenzione, non essendoci più problemi di virus informatici e quindi nemmeno la necessità di programmi antivirus.
E’ indiscutibile che lo Stato debba ribadire attivamente la propria funzione di garante dell’interesse pubblico, funzione alla quale su questo fronte sta abdicando da troppo tempo, ma fino a quando ci sarà una sudditanza psicologica, una sorta di timore reverenziale nei confronti di Microsoft, una paura a dover lavorare con interfacce leggermente diverse, una quasi totale mancanza di volontà nel porsi in ascolto dei movimenti che animano la società civile ed in particolar modo quella dell’Informazione, continueremo a versare inutilmente migliaia di euro a società straniere, ad aver paura dei virus elettronici e a lamentarci delle spese altissime della Pubblica Amministrazione che non hanno una ricaduta benefica ed effettiva sul cittadino, ma contribuiscono invece ad aumentare quel divario elettronico fra chi usa Windows e tutti gli altri. Alla faccia della libertà di scelta e di espressione costituzionali.