La mia famiglia è originaria della regione del Kasai, ma i miei nonni migrarono verso il Khatanga, il ?cuore economico? della Repubblica Democratica del Congo. La presenza nella zona di diverse miniere consentì a mio padre di avere un impiego ben retribuito come ingegnere minerario. Ho avuto quindi la possibilità di studiare, in un paese in cui il diritto all?istruzione è un privilegio di pochi. Nel 1992, esplose un conflitto tra i nativi del Katanga e gli immigrati del Kasai: le milizie governative iniziarono una vera e propria pulizia etnica nella provincia. Le persone originarie del Kasai venivano uccise, perseguitate, cacciate. Lo Stato metteva a disposizione treni: eravamo costretti a lasciare il Katanga e tornare nella nostra regione d?origine. Tra mille difficoltà riuscimmo a partire; stipati su un treno, deportati.
Una volta arrivati nel Kasai, era tutto da ricostruire e noi non avevamo più nessun legame con quel luogo: nessun parente, nessun amico ad attenderci. Mio padre, grazie alla sue competenze, riuscì a trovare un nuovo lavoro e con il tempo le cose andarono meglio, fino al giorno della sua morte. Mia madre, casalinga sola, non poteva mantenere la famiglia e, come accade spesso in Congo, i figli vennero ?distribuiti? tra i parenti. Io raggiunsi uno zio che abitava nella capitale, Khinshasa.

Mio zio era un pastore della Chiesa Evangelica che, durante i suoi sermoni, condannava le ingiustizie sociali e le violazioni dei diritti umani perpetrate in Congo. Iniziai ad aiutarlo nella sua attività: distribuivo volantini di protesta, raccoglievo testimonianze e denunce. Arrivarono le prime minacce: ci intimarono più volte di tacere. Un giorno i militari vennero a cercare mio zio che, con l?aiuto dei suoi fedeli, riuscì a fuggire. L?indomani trovarono me: mi rifiutai di collaborare e fui arrestata.
Le celle in carcere erano due metri per due, senza luce, senza acqua e ogni giorno subivo torture e molestie sessuali. Una notte, dopo tre mesi d?inferno, inaspettatamente una guardia mi aiutò a fuggire. Un tempo era stato fedele di mio zio ed aveva atteso in segreto l?occasione di aiutarmi. Mi presentò un uomo, che mi disse di seguirlo senza fare domande. Attraversammo la foresta di corsa. La mattina successiva eravamo all?aeroporto: i documenti falsi erano pronti, ma io non conoscevo la destinazione del nostro viaggio. Ancora stordita, mi ritrovai in Italia, all?aeroporto di Fiumicino. Giunti alla Stazione Termini, l?uomo mi disse: «Il mio compito finisce qui. Sei in Italia?Salvati!».

S. ha 26 anni, vive a Roma da un anno e mezzo e ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari. È stata ospite di un centro di accoglienza gestito dal Centro Astalli a Roma e da circa un anno collabora a ?Finestre?, un progetto della Fondazione Centro Astalli per la sensibilizzazione degli studenti di scuola media superiore al tema del diritto d?asilo.