Una storia sufi, messa in musica da Roberto Vecchioni, racconta di un giovane che, credendo di fuggire l’angelo della morte, galoppa fino a Samarcanda e proprio lì trova la morte ad aspettarlo. A questa amara fiaba hanno pensato alcuni volontari del Centro Astalli quest’estate, quando un ragazzo afgano è morto in un ospedale romano in seguito a una grave infezione polmonare, probabilmente esito di malattie a lungo trascurate. A poco gli ha giovato essere sopravvissuto ai pericoli che hanno marcato la sua breve vita, dai pestaggi delle polizie di frontiera al viaggio legato sotto un tir in corsa. Pakistan, Iran, Turchia, Grecia, Germania, Italia, Russia, Norvegia e poi di nuovo Germania e infine Italia: questo invece è l’incredibile itinerario percorso in cinque anni da un suo connazionale prima di riuscire ad ottenere asilo nel nostro paese, a 24 anni.

Da più di un anno i giovani afgani sono la presenza più significativa di rifugiati a Roma e in molte città italiane. Spesso hanno solo 16 o 17 anni. I ragazzi italiani, a quell’età, iniziano a chiedersi se i genitori li manderanno a fare la prima vacanza da soli. Loro invece, partiti bambini, hanno già vissuto esperienze che un uomo maturo è mai del tutto pronto ad affrontare. Molti di loro non hanno mai frequentato una scuola, anche se magari i loro genitori erano professionisti, convinti della necessità di dare un’istruzione ai propri figli. È difficile mandare un bambino a scuola sotto le bombe. Fanno parte di quell’esercito silenzioso di oltre 120 milioni di bambini ai cui è negato il diritto all’istruzione di base.

In molti casi loro e le loro famiglie hanno subito discriminazioni etniche e religiose di cui solo ora, grazie ad alcuni romanzi di successo come “Il cacciatore di aquiloni”, alcuni di noi sono consapevoli. I loro racconti ci aiutano ad uscire dallo stereotipo mediatico di un Afghanistan fatto solo di talebani e di burqa per scoprire un paese dalla storia lunga, complessa e fatta di sfumature che in larga parte ignoriamo.

Quali prospettive l’Europa, e il nostro paese in particolare, offre a questo gruppo di giovanissimi profughi? I bisogni sono molti, non tutti facili da decifrare. Un pensiero particolare va alla salute, spesso minata da condizioni di vita precarie fin dalla prima infanzia, ma anche da lavori rischiosi e defatiganti condotti per anni nelle fabbriche dell’Iran e della Turchia, per mettere insieme i soldi necessari per il viaggio.

Periodicamente i politici invocano la necessità di selezionare gli immigrati che varcano le nostre frontiere. Questi discorsi solitamente non menzionano il diritto di chi fugge per salvarsi la vita, che non dovrebbe essere mai messo in discussione. Ma è bene chiedersi anche se un governo “selezionerebbe” mai, tra i suoi potenziali nuovi cittadini, un ragazzino analfabeta. Certamente no. Oggi, a giudicare dai risultati sorprendenti che molti di questi ragazzi sono riusciti a raggiungere, possiamo affermare che quel governo sbaglierebbe. C?è da augurarsi che molti altri giovani riescano, come loro, a fare tesoro di ogni opportunità, mettendo a frutto con coraggio i propri talenti.