Sono nata ad Asmara nel 1983, quarta di cinque figli. Avevo 10 anni quando l?Eritrea ottenne l?indipendenza dall?Etiopia. Ricordo bene la gioia di quel giorno; eravamo tutti felici, fiduciosi nel futuro e pieni di entusiasmo.
L?atmosfera di speranza che si respirava a Asmara fece crescere in me la motivazione allo studio: finalmente non avevo più timore. Un periodo di pace sembrava in arrivo, ma la situazione era destinata a mutare drasticamente.
Per la mia famiglia il primo grande cambiamento fu segnato, cinque anni più tardi, dalla morte di mio padre. Da quel momento non potei più dedicarmi allo studio, i soldi non bastavano e iniziai a lavorare. I rapporti tra Eritrea e Etiopia si stavano progressivamente deteriorando e nel 1998 ebbero inizio gli scontri armati che degenerarono presto in una guerra sanguinosa, destinata a durare a lungo e a fare molte vittime.
Tutti potevano essere chiamati per il servizio militare, uomini e donne. I miei tre fratelli furono portati al fronte e anch?io fui reclutata. Presa e condotta al campo di addestramento. Dopo sei mesi di esercitazione militare fui trasferita nella città di Assab, dove iniziai a lavorare come centralinista per l?esercito. Da casa mi giungevano notizie allarmanti: mia madre e mia sorella minore erano rimaste sole e io pensavo sempre a loro, a come e quando avrei potuto raggiungerle.
In occasione della prima licenza tornai a casa e mi trattenni oltre il termine, non volevo più andarmene. Furono i miei superiori in persona a venirmi a cercare. Mi punirono severamente costringendomi a riprendere il lavoro. Dopo il secondo tentativo di fuga la punizione si fece più dura, anzi decisamente disumana. Se prima mi sentivo in trappola, ora ero del tutto privata della libertà. Ero tenuta prigioniera ai confini con il Sudan: solo grazie all?intervento di un parente della zona riuscii a fuggire. Mi procurò del denaro e insieme attraversammo il confine.
I problemi, tuttavia, non erano finiti e le ?questioni politiche? erano destinate, ancora una volta, a modificare la mia vita, a stravolgere i miei progetti. I rapporti tra il Sudan e l?Eritrea erano pessimi e i militari sudanesi iniziarono a entrare nelle nostre case, a esercitare il loro potere, a imprigionarci. Iniziai a pensare a un?altra fuga, aspettavo solo l?occasione, il momento giusto.
La meta questa volta era la Libia. Ci vollero otto giorni per attraversare il deserto del Sahara e il viaggio fu terribile. Non voglio ricordare, mi limito a dire che sono stata fortunata a sopravvivere? Era il novembre del 2002. A Tripoli trovai ospitalità presso altri eritrei, ma ancora una volta non ero libera.
I problemi di intolleranza erano all?ordine del giorno e per noi eritrei era davvero difficile trovare un lavoro; le umiliazioni e i maltrattamenti erano all?ordine del giorno. Dovevo fuggire ancora, questa volta verso l?Italia. Mi imbarcai la notte del 6 marzo 2003 su una barchetta piccola e malandata. Eravamo in duecento e ci aspettava una notte di tempesta. La burrasca scosse la barca e io caddi sbattendo la testa su un grosso chiodo.
Tutto ciò che accadde dopo, nelle 44 lunghe ore che ci separavano dall?arrivo a Lampedusa, mi è stato raccontato da altri? Entrai nel centro di accoglienza di Crotone e dopo un mese, su consiglio dei miei connazionali, andai verso la capitale.
A Roma potevo chiedere asilo e poi arrivò il centro d?accoglienza, la mensa della Caritas, la scuola d?italiano del Centro Astalli? Il mio cammino verso la libertà era ancora lungo e anche oggi mi aspetta molta strada.
Viaggio di speranza tra l?Eritrea e l?Italia