La brillante campagna elettorale di Veltroni e un risultato per il Pd sostanzialmente in linea con quello dell’Ulivo alle elezioni precedenti hanno forse mascherato l’entità della sua sconfitta. In primo luogo, secondo le più autorevoli analisi sui flussi elettorali (quale quella dell’Istituto Cattaneo) il Pd avrebbe ricevuto almeno un milione di voti dalla sinistra radicale, il che significa che altrettanti elettori sono stati perduti verso il centro, la destra o il non voto. Lungi dall’aver sedotto l’elettorato moderato, il Pd ha quindi visto il proprio consenso scendere sensibilmente proprio tra quegli elettori che intendeva maggiormente attrarre. In secondo luogo, il Pd si trova drammaticamente a corto di alleati. L’alleanza Pd-Idv è di quasi 3 milioni di voti sotto a quella tra Pdl, Lega e Mpa, che può potenzialmente estendersi alla Destra e alla lista Ferrara (più di un milione di voti) ed eventualmente all’Udc (2 milioni di voti). In assenza di una fantasia simile a quella che ha creato l’originale Ulivo del 1996 dopo la sconfitta dei «progressisti» di Occhetto, sembra difficile che il Pd e i suoi attuali alleati riescano a battere il centrodestra in tempi brevi, con il rischio di un nuovo «bipolarismo imperfetto» e una «vocazione minoritaria» per il centrosinistra.
Il Pd non è stato in grado di superare la fatidica «quota 12 milioni» di voti (raggiunta dalle sue componenti fondatrici nel 1996 e nel 2006, sfiorata nel 2001, e curiosamente simile, anche per distribuzione territoriale, al numero di voti del Pci al suo apice nel 1976) e difficilmente potrà «sfondare» la quota di consensi che proveniva in dote dai partiti che sono confluiti nel Pd in assenza di innovazioni radicali.
Le ragioni delle difficoltà sono molteplici, ma una tra la più importanti è il modo «vecchio» nel quale viene selezionato il suo ceto politico. Non è quindi una sorpresa che il numero di voti sia rimasto sostanzialmente in linea con quello del passato, vista la giustificata diffidenza dell’elettorato verso un gruppo dirigente che in larga misura è sopravvissuto a quattro trasformazioni (Pci-Pds-Ds-Pd in un caso, Dc-Ppi-Margherita-Pd nell’altro).
Il Pd è un partito ancora nostalgicamente dominato, come i partiti di massa del ?900, dalle segreterie (nazionale, regionali e provinciali) e non dai leader istituzionali (che in alcuni casi eccezionali possono ambire a un certo dualismo), isolando le gerarchie dai risultati elettorali e rendendo estremamente difficile l’ingresso di esterni ai vertici dei vari livelli. Un individuo che non appartenesse alla «casta», infatti, difficilmente sarebbe interessato ad abbandonare la propria occupazione per candidarsi a primarie per una posizione di segretario di partito. Anche se decidesse di tentare, sarebbe poi svantaggiato dal fatto che le reti di conoscenze estranee alla politica difficilmente coincidono con i livelli territoriali provinciali e regionali (troppo ampi per persone «note» in città e troppo piccole per persone con visibilità nazionale).
Proprio per questo le elezioni dei segretari locali sono raramente contestate. Per quanto appena nato, il Pd non è quindi per nulla immune all’ondata di professionalizzazione della politica che ha investito la seconda Repubblica, consentendo al ceto politico dei partiti fondatori di sopravvivere, e dominare, al suo interno. Questo crea un problema di credibilità che è destinato a frenare il suo successo elettorale. Con quale credibilità, infatti, si può proporre un segretario a rappresentare il Pd quando ha già rappresentato un partito diverso? E invece la stragrande maggioranza dei segretari del Pd proviene proprio dalle fila dei segretari di Ds e Margherita.
E’ forse proprio per questo motivo che quello di cui il Pd avrebbe avuto bisogno è stato accuratamente evitato. Le primarie avrebbero infatti avuto molto più senso, attivando nuove risorse e nuovi potenziali dirigenti, se fossero state tenute per i candidati al parlamento. Si è scelto invece di assecondare una delle peggiori norme contenute nell’attuale sistema elettorale ? denominato non a caso Porcellum ? che prevede la presentazione di liste bloccate da parte dei partiti.
I deputati e i senatori del Pd sono «nominati» invece che «eletti» e questo riduce drasticamente le probabilità di un ricambio della classe dirigente, rafforzando la partitocrazia.
A parte qualche cooptazione ampiamente discussa sui giornali (che con poche eccezioni hanno coinvolto persone scarsamente politicizzate o già interne al ceto politico di Ds e Margherita) non si vede come, guardando al suo gruppo parlamentare o leggendo le cronache dei regolamenti di conti tra le sue correnti sul giornale, il Pd proietti un’immagine diversa dalla «fusione fredda» delle nomenklature dei partiti fondatori. Si è quindi utilizzata un’idea innovativa (quella di un partito all’«americana») per rilegittimare vizi antichi e tipicamente «italiani», invece che per innescare quel processo di cambiamento radicale che i cittadini chiedevano.
Questo cinismo, che può a volte rasentare l’ipocrisia, ha senz’altro contribuito, come è stato osservato in tempi non sospetti mesi prima delle elezioni, ad allontanare molti elettori dal Pd, nonostante il sincero calore ed entusiasmo che avevano caratterizzato i suoi albori. Il periodo di (lunga) opposizione che si prefigura per il Pd può forse essere l’ultima occasione se si vuole evitare l’ennesima rifondazione di un partito «seminuovo» a ogni legislatura.
Questo richiede soprattutto che l’attuale leadership resista alla tentazione di sopravvivere in sella a tutti i costi fino alle prossime elezioni nonostante la sconfitta, che comporterebbe necessariamente un compromesso con gli attuali gruppi dirigenti.
La leadership del Pd potrebbe quindi svolgere il suo mandato costituente priva di condizionamenti, dedicandosi con tutte le energie al varo di un partito veramente nuovo, combattendo una volta per tutte i vizi del passato e offrendo agli elettori di centrosinistra, e all’intero Paese, una forza politica all’altezza delle sfide che attendono l’Italia.