Ricordo spesso e con tenerezza un episodio che riguarda l?infanzia di mio figlio Francesco.
Sta per finire il 1998 e ricevo in ufficio una telefonata da mio marito Carlo. Ha invitato a cena padre Leo, un sacerdote africano di passaggio a Roma, prima di ripartire definitivamente per la Tanzania, dove dovrà reggere una missione in un grande villaggio.
Sento Carlo molto felice, perché padre Leo è legato ai ricordi della sua infanzia, quando Leo, da giovane prete, trascorreva il periodo estivo ospite della parrocchia di Forte dei Marmi per aiutare il Priore nella celebrazione delle messe e nelle confessioni.
Ma c?è un motivo in più che lo rende contento: mio suocero, che si chiamava Francesco come il mio primogenito ed era un uomo di mare, si era sempre preoccupato di dare calore e accoglienza a quel giovane sacerdote. Forse proprio perché abituato a viaggiare e a lasciare per lavoro, per lunghi mesi, la famiglia, mio suocero comprendeva ancora di più il sentimento di malinconia e di nostalgia che può colpire un uomo che vive così lontano dai propri affetti. E nel semplice gesto di accoglienza, voleva quasi ridurre se non annullare le distanze e far sentire più vicina a lui la terra d?Africa.
Comprendo quindi l?importanza di questa cena. Mi preoccupo del menù e dell?allestimento della tavola, come ogni donna di casa. All?epoca mi piaceva molto realizzare dei bellissimi centrotavola floreali.
Portata a termine l?organizzazione della serata, mi siedo finalmente con mio marito sul divano in attesa dell?arrivo dell?ospite. Nostro figlio Francesco non ha ancora 3 anni e sta giocando nella sua cameretta. Solo nel momento dello squillo del campanello, ci rendiamo conto che nessuno di noi due gli ha detto la cosa più importante: padre Leo ha la pelle nera. Ma non un po? nera, proprio nerissima, ebano lucido. Non c?è più tempo, rischiamo di fare un pasticcio all?ultimo minuto, non potendo prevenire la reazione del bimbo, mentre sentiamo padre Leo salire in ascensore. Il timore che Francesco l?avrebbe guardato con troppa attenzione o imbarazzato con domande strane e impertinenti sul colore della sua pelle, riempie i secondi fino all?entrata di Leo nella nostra casa. Alla fine ci siamo detti che avvertire Francesco sarebbe stata già una forma di discriminazione e ci siamo affidati all?ingenuità e alla naturalezza di nostro figlio.
Francesco fa il timido e non esce subito dalla sua stanza.
Un aperitivo prima di andare a cena ed ecco finalmente arriva il momento tanto atteso: l?ingresso di Francesco in sala da pranzo. Tratteniamo il respiro, mentre Leo inizia a scherzare con il bimbo che fa capolino dietro la porta e poi si nasconde. Leo cerca di attirare la sua attenzione, raccontando di aver visto da vicino piccoli leoni e giraffe dal collo lunghissimo. All?improvviso, Francesco, come se vedesse in lui uno di casa, con un gran balzo entra di corsa e si butta fra le braccia del nostro ospite, con una risata dirompente e chiedendogli il verso del leone.
Poi il silenzio. Vediamo che Francesco indietreggia un passo da padre Leo e alzando il braccio, punta con il dito la sua mano. Mi sento morire. Chissà cosa dirà, chissà cosa succederà dopo. Francesco, come un piccolo animale della savana, si avvicina guardingo quasi a sfiorare con l?indice la mano di Leo, fissandola con i suoi occhietti vispi. All?improvviso, quando ormai il mio cuore sembra schizzare fuori e con mio marito ci scambiamo occhiate intermittenti, pronti a qualsiasi cosa, Francesco dice la sua prima parola davanti a padre Leo: ?un neo!? grida, ?come quello che ho anch?io sulla manina?? E si volta pieno di soddisfazione verso tutti noi per farci vedere la sua piccola grande scoperta. Francesco non ha notato il colore diverso di tutto il corpo del nostro amico africano, ma quel piccolo difetto comune.
La cena trascorre tranquillamente, nonostante due o tre episodi pieni di emozione, durante i quali padre Leo, incalzato dalle nostre domande, ci racconta storie di incredibile povertà del suo villaggio che ci fanno sentire due ?smidollati occidentali?, affogati dietro ad amenità più o meno varie, come la mia preoccupazione per il centro tavola. E Francesco sta lì, tranquillo, gentile e assolutamente disinvolto, come se tutti i giorni la nostra casa fosse frequentata da persone che parlano l?italiano con quello strano accento, da persone che raccontano di strade fangose, e di occhi che si illuminano di gioia nel dirci l?importanza per la realizzazione di un pozzo d?acqua.
Quel giorno un bambino di neanche tre anni ha dissipato in un soffio i nostri inutili tormenti e ho sinceramente sperato che anche da grande potesse vivere le diversità con la stessa disinvoltura.
Francesco oggi ha tredici anni, ma spesso vuole sentirsi raccontare questo piccolo aneddoto familiare, e sono certa che anche grazie a questo, comprende meglio che solo le persone stupide e intolleranti considerano inferiore o diverso ciò che non riescono a capire o che non conoscono.
Il mondo che vorrei (1)