La conoscenza di una lingua e dei principi costituzionali, la possibilità di avere un regolare contratto di lavoro e un alloggio dignitoso ottenuto tramite stipula di contratto con valore legale, sono elementi che dovrebbero rientrare nel novero dei diritti garantiti a tutti. Questo dovrebbe accadere in un paese che si ritiene civile, e che metta in atto una politica seria per combattere l’evasione fiscale e lo sfruttamento di manodopera in nero. Questo ci si aspetterebbe da un paese in cui, secondo l’ultimo rapporto Cnel “Mercato del Lavoro 2008-2009”, servirebbero ogni anno 400.000 nuovi lavoratori immigrati per poter aspirare a un sviluppo progressivo attorno al 2 % del prodotto interno lordo.
Questo infatti accade in paesi come Germania, Canada, Svizzera, Australia dove è in vigore da tempo, oltre a tante altre misure, il permesso di soggiorno a punti, strumento efficace dentro una politica che favorisce il permesso di soggiorno in tempi brevi e certi e dove vi è un sistema scolastico accessibile in tempi e modalità che favoriscono sia i lavoratori sia gli studenti immigrati.
In Italia purtroppo la situazione è assai diversa e l’idea del «permesso di soggiorno a punti», introdotta dal cosiddetto pacchetto sicurezza sembra l’ennesimo strumento (per altro di difficile attuazione) per trasformare ciò che dovrebbe essere un diritto, come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, il lavoro e la casa, in una lunga serie di doveri e obblighi, pena l’espulsione.
Si potrebbe fare tanta ironia. Ci si potrebbe domandare quanti membri del parlamento e del governo abbiano una sufficiente conoscenza della Costituzione, si potrebbero somministrare test di lingua a italiani da sette generazioni. Ma è più giusto invece analizzare le condizioni di vita e di lavoro in cui si trova la maggior parte dei migranti residenti in Italia. Senza giungere ai casi limite di chi, in regime di semi schiavitù, nei campi come nelle case, non ha il tempo materiale per poter imparare altre parole che quelle necessarie per obbedire, si guardi al fatto che a fornire corsi di italiano per stranieri provvedono associazioni di volontariato laiche e religiose, ma nulla arriva dalla scuola pubblica. Anche imparare la lingua (che è un desiderio legittimo di chi emigra) è spesso un diritto inesigibile. La Costituzione fatica ad entrare anche nelle scuole, come farla entrare nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro o di socialità? Il contratto di affitto regolare è una chimera a cui aspirano anche molti italiani.
I figli a scuola? Volentieri! Peccato che con la riforma che si prepara, il tasso di abbandono scolastico per i figli di migranti sia destinato a crescere. Del resto è inevitabile se se si devono fare chilometri per giungere negli istituti in cui non si sia ancora raggiunto “il tetto”.
In Canada o Germania esiste un sistema di welfare per favorire i processi di inclusione sociale, che in Italia non è mai esistito. Allora prima di raccogliere punti, proviamo a raccogliere idee e risorse per varare in Italia un sistema di integrazione per immigrati che non sia più affidato con delega in bianco al privato sociale.
L’invito ovviamente è bipartisan, con una precisazione per la sinistra: è facile fare opposizione dicendo di no a tutto, aspettiamo però delle proposte in merito che mancano ormai da troppo tempo.
Ma con un sistema di welfare per favorire i processi di inclusione sociale