L’incontro di Praxis con il sen Pietro Ichino ha confermato le posizioni già a tutti note del professore: moltissime condivisibili, alcune meno. Sappiamo che il senatore è il paladino dell’aggiornamento e della revisione delle normative del lavoro (a partire dall’art. 18) e anche in questo incontro ha ribadito le sue convinzioni, che muovono essenzialmente da un dato inconfutabile: gli attuali ordinamenti sono frutto degli anni Settanta, delle rivendicazioni di massa del post sessantotto, quando non esistevano i computer, i fax, la posta elettronica e finanche le fotocopiatrici. Era l’epoca delle macchine da scrivere Olivetti, dei ciclostili, dei fonogrammi, dei telegrammi. Tutto un altro mondo di comunicare , di lavorare, di vivere: un’altra epoca storica insomma.
E’ quindi necessario, inevitabile, un adeguamento delle norme, delle relazioni sindacali (dei modi di fare sindacato, aggiungerei, anche di fare politica). Meglio non lasciare su questi temi delicati, i temi del lavoro, il campo spalancato alla destra. Finché l’opera di revisione parte da persone come il prof Ichino i dubbi, le paure di accrescere la precarizzazione del lavoro, soprattutto di quello giovanile mi allarmano meno. Meno sicuramente se le stesse proposte di revisione partissero dal Ministro Sacconi o Confindustria.
Ciò detto, il tema del lavoro è talmente centrale, che un’ora e mezza di incontro non ha potuto che essere un breve assaggio delle questioni sul tappeto. Speriamo in successivi approfondimenti.

Ma alcune riflessioni sono d’obbligo dopo le parole del sen. Ichino. Sono le riflessioni che ho posto nel successivo dibattito e che ripropongo per chi non fosse stato presente. Sono pensieri in libertà, tutti terminano con un punto di domanda. Li pongo all’attenzione di tutti tanto per sollecitare un po’ di ginnastica mentale.

Le multinazionali.

Ricordava il professore dello scarso appeal che ha l’Italia verso i capitali esteri (che investono da noi solo il 10% di quanto investono in Gran Bretagna ad esempio). Se il nostro Paese riesce a calamitare solo le briciole dei grandi investitori internazionali un motivo ci sarà. Non si tratta solo di gap infrastrutturale. Concludeva il professore : si tratta anche della mancanza di avere un quadro normativo delle relazioni industriali, delle norme che regolano i rapporti di lavoro. Ci vorrebbe un ordinamento chiaro, snello e, non ultimo, traducibile in inglese. Sembrava quasi una battuta, mentre la traducibilità in inglese, la lingua del mercato, è un punto critico rilevante, fondamentale per far conoscere chiaramente ai capitali esterni, alle multinazionali che scelgono di investire da noi cosa loro aspetta, le regole del gioco. Ricordava poi il senatore come spesso le multinazionali paghino i propri dipendenti di più delle imprese nazionali locali.

Ebbene quando il prof Ichino parlava di multinazionali, proprio l’altra sera, ero appena uscito da una sede del Senato dove si era dibattuto di responsabilità sociale d’impresa partendo dalla Caritas in Veritate di Benedetto XVI. Sia il Ministro Sacconi, che Emma Marcegaglia, che Epifani in quell’incontro avevano, ognuno dal proprio punto di osservazione, stigmatizzato il comportamento poco responsabile delle multinazionali: in tempo crisi sono le prime che chiudono i battenti e cercano mercati più convenienti, perseguendo una politica del mordi e fuggi che non ha riscontro nelle imprese legate al territorio, soprattutto le piccole e medie imprese. Vedi caso Alcoa in Sardegna ( ma anche il caso Fiat – multinazionale made in Italy – a Termini Imerese).
Del resto De Rita presentando il Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2009 lo aveva già rimarcato: se l’Italia è in fase di uscita dalla crisi senza le drastiche rotture sociali avvenute in altri Paesi ( Spagna ad esempio o Irlanda o Grecia) lo si deve anche al nostro sistema economico fondato sulla piccola e media impresa. Rispetto alle multinazionali che chiudo e se ne vanno altrove, in Italia abbiamo assistito a piccoli imprenditori che si sono suicidati per l’angoscia di non poter pagare gli stipendi ai dipendenti.
Prima domanda allora: quale modello di sistema economico per l’Italia post-crisi? Un modello di forma tradizionale come l’attuale basato per il 98% in piccole aziende o bisogna privilegiare i grandi capitali esteri creando anche norme “civetta” tali da modificare il mercato del lavoro per favorire i loro investimenti?

Ferrovie, sindacati e liberalizzazioni

Altro tema toccato dal prof Ichino è stato quello della nostra Pubblica Amministrazione, non rispondente alle esigenze dei cittadini (le Poste), delle imprese pubbliche in corso di modernizzazione (le Ferrovie) ma ancora in mezzo al guado, a suo modo di vedere anche per colpa di sindacati forse troppo miopi e litigiosi. E ha portato l’esempio delle ferrovie svizzere che, volendo gestire un tratto di linea di raccordo con l’Italia, hanno proposto di triplicare i compensi ai ferrovieri italiani che avessero lavorato su quella linea per adeguarli ai colleghi svizzeri. Ovviamente come contropartita c’era un’equiparazione dell’orario di lavoro (più lungo in Svizzera) e l’impossibilità all’interno della durata del contratto, di scioperare. Condizioni che hanno determinato una risposta sindacale di totale chiusura per non metter a repentaglio l’unicità del contratto con l’avallo di micro-contratti in deroga. Certo è difficilmente comprensibile un sindacato che rifiuta di triplicare il salario dei lavoratori, anche se in ballo ci sono delicati principi! Forse sarebbe stato più giusto decidere dopo un referendum tra i diretti interessati. Forse le posizioni di principio a volte non sono corrispondenti alla realtà quotidiana, ai problemi della spesa di tutti i giorni. Forse in altri casi però la conflittualità è anche voluta da un management miope o da un governo che pratica una politica di spaccatura dell’unità sindacale, non sempre dobbiamo dare la croce al sindacato. Su questo non ho sentito particolari approfondimenti dal professore.

Sempre le Ferrovie hanno dato occasione al prof. Ichino di introdurre il tema delle liberalizzazioni: si cerca sempre di ostacolarle, soprattutto nelle aziende pubbliche, meno attrezzate culturalmente a fronteggiare la concorrenza, perché si ha paura del mercato. E’ vero, ma aggiungo io: tra poco le Ferrovie Francesi entreranno in Italia nel sistema dell’Alta Velocità in quota azionaria alla NTV di Montezemolo. Provate a fare la stessa operazione in Francia e vediamo se riesce.
Seconda domanda: esiste reciprocità nelle liberalizzazioni in Europa? Esiste un mercato libero europeo? O i tanti protezionismi che a ripetizione di volta in volta affiorano sono l’immagine di un’unità Europea più sulla carta che reale?

I giovani

Il lavoro giovanile resta il problema dei problemi, soprattutto se femminile, soprattutto se al Sud. E accomuna immigrati, italiani, settori professionalizzati e meno specializzati. Ho ancora all’orecchio le parole del professore di Fondamenti Aerospaziali, presidente della commissione di laurea di mia figlia, che a chiusura della sessione di laurea, quasi con rassegnazione e rammarico esortava i neo laureati: “ora siete laureati in ingegneria aerospaziale, non accettate lavori da 400 euro al mese!”. Già immaginava dove sarebbero andati a finire tanti sacrifici, tante speranze…

Ultima domanda: fa bene il presidente della Luiss a consigliare a suo figlio ad abbandonare l’Italia subito dopo laurea?

Prof. Ichino c’è ( ci sarà) futuro per i giovani in questo Paese? Come si può modificare il mercato del lavoro a loro favore senza precarizzare e ipotecare il loro futuro? Dal lavoro dei giovani dipendono la nascita o meno delle famiglie di domani, la natalità, lo sviluppo demografico del Paese. Un Paese di vecchi non ha futuro.

M come multinazionali, M come mercato liberalizzato, M come mercato del lavoro, per i giovani prima di tutto. E siamo tornati appunto ai temi di Praxis di quest’anno… e tante domande. Sperando che in Italia ci sia un partito che sappia dare risposte…..se c’è che batta un colpo!