“Se non cambiano i politici la politica non cambia. Non è un cambio anagrafico che ci viene richiesto bensì, cosa molto più complicata, una vera e propria conversione nei comportamenti.”

Caro Amedeo, non potrò partecipare alla riunione di dopodomani. Impegni nuovi legati all’Amministrazione non lo consentono. Per questo motivo, capendo l’importanza della riflessione che si apre, vorrei permettermi di affidarti qualche pensiero sul “contendere”.

Innanzitutto chi siamo: secondo me siamo persone che hanno deciso di fare politica nel solco della moderna democrazia occidentale. Quindi non l’assemblearismo greco tramandatoci dall’età “aurea” di Pericle (che gli storici più attenti definivano come la più splendida tra le dittature della Grecia Antica). Bensì quel tipo di regime autenticamente e naturalmente democratico propugnato soprattutto dall’illuminismo francese (Libertà, Uguaglianza, Solidarietà). Non è poco. Bilanciamento, equivalenza e controllo reciproco tra i poteri (tutti i poteri, anche quello economico e dei mezzi d’informazione) in contrapposto all’assemblearismo, alla “dittatura” della maggioranza e alla plutocrazia. Uscita definitiva dalla distinzione ideologica e artificiosa tra democrazia “formale” e “sostanziale” (vero governo del popolo) propugnata dal PCI sino agli anni settanta. Lotta per l’effettiva realizzazione del cammino democratico moderno iniziato, appunto, alla fine del diciottesimo secolo e rimasto ancora troppo mancante nella propria compiutezza.

Secondo poi da dove veniamo: nel solco di quella tradizione democratica che (vedi sopra) dovrebbe configurare il nostro essere in politica, penso sempre di più che i sardi siano un popolo oltremodo intelligente. Infatti, a più riprese in servizi televisivi, ho visto le foto di Enrico Berlinguer e Aldo Moro appese alle pareti dei luoghi istituzionali dei democratici sardi. Non è che ci convenga dire che noialtri veniamo da lì. Occorre renderci conto ed interiorizzare il più possibile la coscienza che sono stati quei due a prefigurare la scelta che, zoppicando, abbiamo fatto noialtri. La storia che possiamo e dobbiamo condividere viene dalla fase di confronto e impegno democratico comune che loro due impostarono prima che la tragedia ci avvolgesse. Per il resto la nostra storia ci mette davanti la sfida e l’avventura del “foglio bianco”. Basta col comunismo e con chi lo rappresenta anche nella memoria più banale o superficiale. Per la maggior parte dell’occidente non è un bel ricordare. Ed è lo stesso, anche se per motivi differenti, per l’esperienza democristiana almeno nei confini dello stivale. Cominciamo, e fate bene voi a farlo, a pensare all’idea democratica come qualcosa di nuovo che il mondo ha diritto di attendere e speranza di realizzare.

Terzo, quindi, dove andiamo: tutti sentiamo che il mondo vuole e deve andare verso una vita nuova e differente. Questa vita, secondo me, consiste nel liberare l’essere umano dai vincoli dell’iper – produttività; nel liberare la mente ed il tempo delle persone dalla necessità di consumare. Far si, cioè, che l’essere umano possa impiegare la maggior parte del proprio tempo vicino agli affetti più cari, ai propri leciti interessi materiali, morali o spirituali. Sarò un presuntuoso, caro Amedeo, ma penso che in Italia si sia sviluppato un odio così acceso dentro le famiglie (abbiamo la percentuale più alta in Europa di atti di violenza “domestica”) proprio perché la civiltà che ci siamo costretti a vivere incasella l’affetto che dovremmo scambiarci in spazi industrialmente precostituiti e funzionalizzati alla produzione e al consumo di massa. Questo è, ovviamente, soltanto un esempio. Proporre spazi per una “vita slow” (Carlo Petrini docet) dovrebbe essere il primo compito della politica. Ma questa rivoluzione, che presuppone la rinuncia ai grandi processi accentrati per favorire la frammentazione e la ri – connessione dei processi più piccoli in una rete di rapporti a misura di essere umano, non si può fare con i Comunisti. E nemmeno con i Marxisti. Alla base di questa rivoluzione c’è un interrogativo che Marx ha bypassato: se il lavoro è parte integrante dell’essere umano, può l’essere umano vendere se stesso ad un altro tramite il proprio lavoro? È una domanda rimasta implicita o inevasa ad ogni passo che ha compiuto la civiltà moderna. La risposta è stata data soltanto “di striscio”. C’è stato chi ha proposto il rafforzamento dello “stato sociale” e chi, ad esempio De Gasperi, lo sviluppo parossistico dell’apparato pubblico (se l’essere umano è pubblico dipendente è in estrema analisi dipendente di sé stesso). Ma queste prospettive di sviluppo sociale oggi vengono messe in crisi dalla “globalizzazione” che oramai ha messo in crisi tutto compreso se stessa. La globalizzazione prevede che i grandi processi accentrati vengano posti in rete mondiale. Ed è così che l’intero pianeta è stato messo di fronte alla propria fragilità. Così l’aumento del PIL (cioè l’aumento di petrolio, cemento e acciaio) crea un meccanismo perverso di crisi. Ad ogni incremento di produzione, infatti, è immediatamente collegato l’impoverimento delle risorse vitali. E il segnale evidente di questo, è che negli ultimi tempi ogni volta che si riscontrano i primi segnali di ripresa le borse “calano”. Questo, sempre a mio presuntuoso giudizio, segnala la sfiducia del mondo nel “sistema”.

La risposta della politica a tutto questo dovrebbe essere il riequilibrio d’importanza tra tutto ciò che è “PIL” e tutto quello che è “NON PIL (aria, acqua, salute e cultura)”. Ma i grandi processi accentrati non sono in grado di far fronte a questa esigenza di riequilibrio. Occorrerebbe liberare l’essere umano tramite un sistema di rete che lo ponga in condizione di essere parte attiva e padrone. Sembrerebbe fantascienza ma questo modello il mondo l’ha già individuato. Un tempo, dalla Grecia antica sino alla Francia moderna, c’era il podio dell’agorà da cui uno prendeva la parola e gli altri ascoltavano. Così, alternandosi, si dava luogo al dibattito politico in forma più o meno democratica. Attorno a questa struttura si configuravano tutte le forme di aggregazione e di attività sociale. A turno, perciò, uno parla e gli altri ascoltano. Uno coordina e gli altri obbediscono. Uno agisce e gli altri guardano. Questo, attraverso le varie fasi storiche, è successo fino a tutta “l’epoca della televisione”. Sempre ossequiando un modello di organizzazione strutturato verticalmente.
Ai tempi nostri questa forma s’incarna visibilmente nei concetti di struttura produttiva, specializzazione e parcellizzazione delle attività all’interno dei grandi processi accentrati.
Ma quando internet consente di costruire processi di rete in cui a tutti è tendenzialmente consentito di interagire in modo paritario, scopriamo che il mondo già si sforza, tra mille contraddizioni, di abbandonare la struttura verticale per divenire una rete di persone che si organizzano in modo non più specialistico ma multiforme aiutandosi ponendo insieme le proprie conoscenze e capacità. Fuori di internet, che pure mostra ancora parecchie zone d’ombra, troviamo l’esempio dei gruppi di acquisto solidale che sono tendenzialmente capaci di riassumere dentro di sé le capacità e le esigenze di chi produce, di chi vende, di chi seleziona, di chi analizza il prodotto e di chi lo acquista. Questa non è una moda cui la società verticalmente “organizzata” saprà reagire col tempo. È una risposta vera ed attrezzata ad esigenze vere cui la stessa società verticale risponde male, con fatica e con obbligo di dispendio di risorse finanziarie. Il PD sia pluralista in questo senso. Proponga un progetto sociale dove i pesi tra PIL e NON PIL vengano riequilibrati e in cui vi sia spazio reale e sempre maggiore per la “Slow live”. Promuova la rete e sia parte di essa in ogni modo possibile.
Teniamo presente, infine, che l’economia pesante (l’economia dei grandi processi accentrati e del PIL) ha bisogno della guerra come proprio motore. L’economia leggera (l’economia della rete e del NON PIL) prospera invece nella pace e tende sempre ad essa.
Queste, caro Amedeo, possono essere soltanto elucubrazioni su “come dovrebbe essere” tirate fuori dall’esaurimento di chi si sta logorando cuore e nervi per l’impossibilità di pubblicare i propri scritti. È chiaro che quello che ti ho detto fin ora è molto difficile e altrettanto lontano dal potersi realizzare. Soprattutto perché se non cambiano i politici la politica non cambia. Non è un cambio anagrafico che ci viene richiesto bensì, cosa molto più complicata, una vera e propria conversione nei comportamenti. Allora non si sceglierebbe la strada più facile per essere eletti o, nel migliore dei casi, per vincere le elezioni. In questo modo potremmo cominciare a costruire quello che il mondo chiede alla politica.

Un saluto carissimo

Filippo Roncaccia

Grottaferrata, 18 maggio 2010