Con alcuni amici di Praxis siamo da poco tornati dalla Palestina.

Mi piace chiamarla così, nella sua accezione più ampia ed antica (quella etimologica di
“terra dei filistei”

), prima di tutte le guerre e le vicende successive.

La chiamano spesso “Terra Santa” e ho sempre pensato che questo modo di dire fosse un po’ esagerato e improprio: come può essere “santa” una terra?

Eppure si tratta di una esagerazione comprensibile.

Sono ormai trentanove secoli che popoli diversi considerano quel piccolo territorio “speciale”.

Ebrei, cristiani e musulmani lo hanno considerato la “Terra promessa”, via via terra da meritare, da conquistare, da liberare, da raggiungere, da riconquistare, da onorare, da ricordare. Perché la promessa si compia.

Su quelle colline e per quelle strade hanno camminato Abramo, Giacobbe, Salomone, i cananei, i moabiti, i filistei, i romani, Gesù, gli zeloti, Pietro, Paolo, gli esseni, i bizantini, Maometto, Omar, Saladino, i crociati, i mamelucchi, i turchi, gli ottomani, gli inglesi, i giordani, gli israeliani, i palestinesi dei territori prima assegnati e poi sottratti… e tutti hanno lasciato un segno, tutti hanno avuto un motivo per dire: “Qui” passa la storia, per convincersi che quella non fosse una terra come un’altra, ma il luogo misterioso che segna il rapporto con la trascendenza, con un Dio che promette, mantiene, salva.

Su quella terra e per quella terra si sono affrontati, uccisi, deportati, trucidati milioni di persone, in quella terra hanno festeggiato la vittoria -ciascuno convinto che fosse per sempre !- decine di popoli. Gerusalemme è stata distrutta e ricostruita innumerevoli volte.

Un concentrato di storia, di emozioni, di suggestioni. Un viaggio diverso. Un viaggio che non è possibile paragonare agli altri: più nel tempo che nello spazio, più nel senso delle cose che nelle cose stesse.

Una riflessione su tutte ha prevalso in questo viaggio: quella sulla “terra promessa”.

Se c’è una cosa della quale sembra che gli uomini non riescano a fare a meno è proprio credere ad una terra promessa.

Che sia fisicamente una terra, o -metaforicamente- uno status, un riscatto, una liberazione, un futuro diverso, è la fede nella promessa a fare da motore alla storia.

E’ la promessa la via d’uscita dal caso e dal caos. Dice Hannah Arendt nella sua Vita Activa:
“Il rimedio all’imprevedibilità della sorte, alla caotica incertezza del futuro è la facoltà di fare e mantenere promesse”.


E’ il modo che l’uomo ha trovato per dare un senso alle sue storie e alla sua storia.

Ovviamente perché ci sia una promessa creduta occorre che ci sia un “promettitore” e un “destinatario”: tanto più il promettitore è autorevole e credibile, tanto più la promessa funziona e il destinatario è disposto ad impegnarsi perché essa si compia.

Le religioni non badano a spese sull’autorevolezza del promettitore: l’efficacia si gioca solo sulla intensità con cui i destinatari sono convinti della promessa ricevuta.

I politici e i condottieri, invece, quando fanno i promettitori, devono impegnarsi in prima persona a fornire elementi di credibilità (non sempre convincenti) e così spesso cercano il link con le religioni per risparmiarsi la fatica e correre meno rischi: il trucco è definirsi “inviati”, “unti”, “profeti”, “uomini della provvidenza”, (spesso -temo- credendoci davvero!) acquisendo così una autorevolezza riflessa e poter cavalcare l’onda.

Con l’affievolirsi delle fedi religiose questo tipo di link funziona sempre meno e allora i promettitori hanno escogitato nuove tecniche: fare promesse che non sia possibile verificare con certezza misurabile (
rilancio

dell’economia,
maggiore

serenità,
più

concordia…), basare la credibilità di chi promette su precedenti generici successi o -meglio ancora- su luoghi comuni (aver fatto
a gavetta

, essersi
fatti da sé

, aver
tirato la carretta…)

, reiterare le promesse frequentemente rialzando ogni volta la posta come chi bluffa a poker, avere sempre pronto un colpevole a cui addossare la colpa di eventuali clamorosi insuccessi e… cogliere l’occasione per rilanciare di nuovo.

Tutto questo perché non possiamo vivere senza terre promesse da raggiungere, senza avversari contro cui combattere, senza sognare terre di Canaan in cui scorre latte e miele.

Mi piace tornare alla indicazione della Arendt: il rimedio è
“la facoltà dell’uomo di fare e mantenere promesse”,

non solo di esserne il destinatario e di credere che altri le mantengano.

Le promesse bisogna essere capaci di farle e mantenerle in prima persona.

Forse dovremmo smetterla di abboccare a chi ci promette la terra più bella e ricca per chiederci piuttosto quale terra -qui ed ora- siamo in grado di promettere a noi stessi e ai nostri figli.

E mantenere quello che promettiamo.

Non è poco per il 2011.