Si è conclusa sabato a Roma la prima Conferenza nazionale delle donne democratiche. A poco più di una settimana dalla manifestazione del 13 febbraio, che ha portato nelle piazze italiane centinaia di migliaia di persone, e a meno di un mese dal consueto scambio di mimose, proviamo a fare il punto della situazione.
Abbiamo un testo di legge, finalmente concreto e risolutivo, per favorire la partecipazione attiva delle donne alla vita lavorativa del Paese. Prevede che sia loro riservato il 30% dei posti nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa, nei collegi sindacali e nelle società municipalizzate. Approvato con voto bipartisan alla Camera, il testo è ora all’esame del Senato, dove rischia di essere sommerso dalla valanga di emendamenti già presentati (53, di cui 52 a firma dei senatori del Pdl).
E il Paese? Mentre i giornali continuano a parlarci delle future nozze di Ruby o dei vestiti delle vallette di Sanremo, le principali realtà economiche del Paese sembrano fare muro. Confindustria, con il suo presidente Emma Marcegaglia, l’associazione bancaria italiana (Abi) e l’associazione nazionale imprese assicuratrici (Ania) hanno infatti inviato una lettera al presidente della Commissione Finanze del Senato, Mario Baldassarri, per chiedere una maggiore gradualità nell’applicazione della legge (“attraverso uno o due passaggi intermedi, nell’arco di due o tre rinnovi”, il che significa almeno dieci anni di attesa) e una riduzione delle sanzioni in caso, molto probabile, di trasgressioni.
Il punto vero è che finché si continuerà a presentare il concetto della parità tra cittadine e cittadini come un ideale astratto o un piagnisteo di dubbia origine uterina, non ci muoveremo molto dall’immagine-stereotipo della Loren con vestaglietta a fiori, mentre ramazza mesta la casa della “Giornata particolare” nel bellissimo film di Ettore Scola. O da quello della vetero femminista in zoccoli, gonna etnica e crine al vento. In ogni caso figurine. Magari gradevoli e, alla peggio, macchiette.
E invece. Le donne rappresentano un potenziale troppo spesso inespresso in questo Paese di capacità. Allo stato attuale, un investimento improduttivo in formazione; in prospettiva, nuove fette di mercato (se guadagniamo, saremo in grado anche di spendere, da brave e diligenti trend setter quali sappiamo essere). Senza contare che, come ha ricordato Enrico Letta in più occasioni, i paesi con un elevato livello di partecipazione femminile al mondo del lavoro sono anche quelli con un tasso di natalità più elevato. Non a caso l’ostruzionismo contro la legge per le “quote rosa” è stato definito dal vice segretario Pd: “Un atteggiamento che riflette la confusione generale che si respira dalle parti del centrodestra” perché “le donne, come i giovani, sono la nostra più preziosa risorsa per restituire ossigeno al Paese bloccato” (Corsera, 17/02/2011).
Allora, se non vogliamo rassegnarci alla paralisi o correre il rischio di disperderci nelle piazze, l’invito è a fare comunicazione, “azione di lobbying” nella società, negli ambienti di lavoro. Su un tema che sicuramente interessa a tutti.
Nel perseguire l’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro, non parliamo di eticità della scelta, ma della sua maggiore economicità. Facciamo nostro il bell’approccio pragmatico, propositivo dimostrato dalle tante donne, imprenditrici, politiche, professioniste, che fanno capo all’Associazione TrecentoSessanta. Da Paola De Micheli ad Alessia Mosca, cofirmataria del testo di legge sulle “quote rosa” insieme a Lella Golfo.
Significativamente, il libro di Monica D’Ascenzo, da poco uscito sul tema “quote rosa”, si intitola “Fatti più in là” (Edizioni GRUPPO 24 ORE). Appunto. Lo spazio c’è, bisogna solo percorrere la via più efficace per poterlo riempire.