“Non facciamoci illusioni! Tutti noi, inclusi quelli che debbono pensare perché, per così dire, è il loro mestiere, tutti noi ci ritroviamo abbastanza spesso in una situazione di povertà di pensiero, tutti noi cadiamo troppo facilmente nell’assenza di pensiero. L’assenza di pensiero è un ospite inquietante che si insinua dappertutto nel mondo d’oggi”.
M. Heidegger, L’Abbandono
Essere al giorno d’oggi responsabile di un’organizzazione del Terzo Settore può essere molto gravoso. Spesso si sopporta un notevole carico di ansietà e di insicurezza per le sorti della propria associazione o cooperativa, che è al contempo preoccupazione per chi dall’organizzazione riceve un servizio, di cui il più delle volte non può fare a meno, e per chi nell’organizzazione lavora e vi ha la propria principale fonte di sostentamento.
Lo stato di permanente debolezza e precarietà in sui sussistono nel nostro paese le politiche di welfare (si sente continuamente dire che il nostro è un tempo di “vacche magre”; sarebbe da chiedersi quando mai è stato il tempo delle “vacche grasse”), e i particolari assetti giuridici dei soggetti rappresentati, costruiti intorno al concetto e alla pratica della democrazia, scaraventa di fatto questi dirigenti in una continua e febbrile attività, tesa al reperimento di nuovi fondi, al ripianamento di questa o quella mancanza, alla ricerca e alla costruzione del consenso interno, senza il quale è pressoché impossibile perseguire qualsiasi iniziativa, per buona e giustificata che sia.
Ciò li renderebbe simili, fatte le dovute proporzioni, a qualunque altro dirigente di azienda. Tuttavia oltre la preoccupazione per la sostenibilità economica delle proprie iniziative, oltre il senso di responsabilità esercitato verso i propri soci e dipendenti, e perfino verso le persone cui si rende un servizio, io credo che l’essenza della nostra cura sia legata al destino storico di quel concreto carisma che un tempo ci si è manifestato inaugurando le nostre organizzazioni, e che potrebbe perdersi per sempre.
Questa idea è fondata in realtà su un’altra convinzione; io penso che molti dei soggetti del privato sociale si occupano, consapevoli o meno, in modo privilegiato del “senso”. Ritengo cioè che l’autentico “oggetto sociale” di molte organizzazioni non profit sia la costruzione di un senso comune, collettivo e condiviso.
Qualche spiegazione si rende necessaria. Quando si è presa l’iniziativa di nascere e costituirsi, al centro delle motivazioni non vi erano il più delle volte malcelate motivazioni egoistiche. Vi erano invece genuine “visioni” politiche: una determinata visione della giustizia sociale, del benessere collettivo, della pace, intrecciate alla questione della propria missione nella società. Potremmo dire che ciascuna di queste visioni ha spalancato alcuni orizzonti, all’interno dei quali hanno concretamente visto la luce le nostre organizzazioni.
Ebbene, queste visioni altro non erano che specifiche configurazioni di senso, vedute sul proprio tempo tali da conferire significato compiuto tanto alle forme di convivenza sociale quanto alle esistenze dei singoli, beneficiari e beneficanti insieme. Rivoluzione permanente degli stili di convivenza e dei propri stili di vita, coniugati tra loro in vista dell’incarnazione di ragioni specifiche dell’agire, privato e sociale. Al fatalismo deterministico del libero mercato, che dovrebbe spiegare tutto e viceversa spalanca veri abissi di non senso, perché lascia in-spiegate le ragioni più profonde del convivere sociale, il Terzo Settore nei suoi membri più qualificati ha opposto concrete ragioni etiche, concrete scelte personali che ri-significassero il tempo e lo spazio dell’azione sociale. Lo ha fatto nel tempo della “morte delle ideologie”, cioè in quella sconfessione generale dell’illusione duecentenaria di poter vincere il male esclusivamente attraverso una trasformazione delle strutture sociali, senza il coinvolgimento attivo e l’assunzione di responsabilità dei singoli. E non di rado ha preso anche lo spazio lasciato sgombro dalla politica.
Ora, giunti a questo punto della nostra storia, dovremmo chiederci come ciò sia stato possibile, dove e quando tali vedute ci hanno raggiunto, a partire da quale regione del pensiero vi abbiamo avuto accesso. Dovremmo cioè chiederci dove sono autenticamente le nostre origini. La domanda ha un peso decisivo, dal momento che, siamo disposti o no ad ammetterlo, le nostre organizzazioni sono vive e vitali non tanto in funzione della congruità ed esattezza dei propri assetti organizzativi, pure importanti, quanto piuttosto della costante memoria e della lucida percezione che esse hanno delle proprie origini: “noi siamo piante che debbono crescere radicate nella terra, se vogliono fiorire nell’etere e dare i loro frutti”. La citazione è presa da Martin Heidegger, uno dei grandi maestri del ‘900. Questo filosofo ci suggerisce in un libretto intitolato “L’Abbandono” in cui è stato trasfuso il testo di una sua conferenza, che le forme di pensiero, entrambe necessarie e giustificate nel loro ambito di attività, sono due: il pensiero calcolante e il pensiero meditante. Il primo sarebbe il pensiero che valuta e misura, che costruisce ipotesi e ne verifica la tenuta: “Quando facciamo dei progetti, compiamo delle ricerche o intraprendiamo delle attività, non possiamo non fare i conti con determinate circostanze. Le mettiamo sempre in conto, e in un conto che è costituito dalle nostre intenzioni commisurate a determinati scopi. […] Il pensiero che fa i conti, che tiene in conto, che mette in conto è un pensiero che calcola”. Il secondo pensiero, quello meditante, è invece un pensiero decentrato, che lascia cioè spazio alla compresenza di altre voci più originarie, di cui si mette all’ascolto.
Ora, la scaturigine del secondo pensiero, il pensiero meditante, risiede in una particolare costituzione del rapporto che abbiamo con le cose, che Heidegger definisce “Lasciar essere”. “Abbandono” in effetti è una cattiva traduzione dell’espressione “Gelassenheit”, che nel tedesco corrente significa “calma”, “tranquillità”. L’ascolto attento del linguaggio di cui Heidegger era un maestro ha fatto si che egli riconducesse Ge-lassen-heit alla sua radice verbale “Lassen” (lasciare), opposta all’ambito concettuale del tedesco “Wollen” (volere). “Lasciar essere” si riferisce perciò a un modo di rapportarsi alle cose non volitivo che le lascia emergere nella loro verità (perché non-vuole dominarle, non-vuole sottoporle ai propri scopi), e a un modo di rapportarsi a sé stessi che lascia essere l’uomo ciò che è: essenzialmente un uditore, un essere aperto all’ascolto, che tanto può esprimere nel linguaggio la propria verità (Denken ist Danken, pensare è ringraziare) in quanto la ha prima ricevuta rendendosi disponibile per essa. Così il “lasciar essere” si oppone al “dominio” universale ed assoluto delle cose che l’occidente ha espresso nella scienza e nella tecnica. Tale dominio sta producendo il proprio stesso “tramonto”, in quanto in modo assai più profondo ha determinato nell’uomo occidentale un totale oblio di sé.
Dei molti pregiudizi che si affollano attorno a tale forma di pensiero (che perda il contatto con la nuda realtà, che sia inutile e improduttivo, che sia troppo al di sopra dell’intelligenza comune), ci suggerisce ancora Heidegger che solo uno coglie effettivamente nel segno: il pensiero meditante non avviene senza sforzo. Non avviene cioè senza predisporvisi volontariamente, e senza costruire concretamente le occasioni di un tale ascolto.
È probabile che all’origine di molte organizzazioni del Terzo Settore, o almeno di quelle che hanno espresso maggiore slancio e visione, vi sia stata una simile qualità di ascolto, a cui solitamente si ripensa con profonda nostalgia e gratitudine. Ciò lo si comprende meglio se si prendono in considerazioni alcune biografie di fondatori: su cosa questi uomini hanno fondato le proprie organizzazioni, se non su un personale, approfondito, storico discernimento individuale e collettivo, e cioè su questa dimensione di ascolto e meditazione? Io credo che è in base a questo pensiero meditante che le nostre organizzazioni, esattamente come tutti i grandi edifici spirituali dell’umanità, sono sorte. Pertanto, nel prenderci cura di loro, la vera questione che tende ad affiorare è il destino di quelle visioni ed eredità su cui sono radicate – che così come sono sorte non sappiamo da dove potrebbero rattrappirsi su di sé e morire – a tenerci sulle spine. Non è questo che ci tiene in continua agitazione? Che cos’è fino in fondo che temiamo?
Se, come credo, l’affanno che proviamo è fondato su un genuino timore di mandare smarrita la nostra essenza, allora quel contingente inseguire e “calcolare” le mille variabili distruttive o produttive che incontriamo nel nostro lavoro non è che risposta “parziale” al problema della sussistenza delle nostre organizzazioni, perché la stessa sussistenza ci pare molto più a fondo legata alla questione del rapporto che abbiamo col nostro fondamento. Questo fondamento ha molti nomi, e ciascuno ne coglie a suo modo un aspetto: identità, mission, vision…vale però la pena di nominarlo almeno una volta nel suo modo proprio, in quanto fondamento, ossia modo specifico nel quale un determinato senso si è lasciato incontrare. Quel senso che un affanno privo di sosta non è capace di restituirci integro, e che cede invece ai disponibili.
Il mio augurio è che DIMS sia questo proprio questo volonteroso – perché l’autentico pensiero non avviene senza sforzo – autosospenderci dalla cura continua del particolare, per recuperare l’integrità e l’essenza e la vitalità della nostra azione. Mi auguro che possiamo farci questo regalo – da persona a persona, senza ordini e gerarchie – di sostenerci l’un l’altro in quel paradosso per un dirigente che è lasciar le cose alle cose, almeno saltuariamente, con libertà e gratuità. E con la dovuta gaiezza, che è la felicità con cui il senso delle cose ci viene incontro se ci teniamo liberi per esso.