Che l’aria (o forse la luce) di primavera faccia bene (nonostante tutto) al mio umore, tutti i miei amici lo sanno. Uno di essi, volendosi vendicare di qualche angheria polemica, l’altro giorno mi ha fulminato con una battuta che vi dirò alla fine, dopo avervi esposto questo primo effetto della primavera.
Il fatto è che da molte parti mi pare di cogliere la percezione (o forse solo l’attesa) dell’imminenza (o, forse, semplicemente, della speranza) di una “bivialità” ineludibile per noi, per il nostro Paese e anche per l’Europa, al termine di questa fase di passaggio (krisis, mi pare, in Greco antico vuol anche dire passaggio) che tutti sentiamo critica.
Anche l’Europa sembra giunta ad un bivio, fra pulsioni populiste e rigenerazione delle energie migliori (l’ho segnalato qualche giorno fa, l’articolo di Federico Fubini e Daniele Taino I figli della bancarotta da Il Corriere della sera di domenica 11 marzo); è ad un bivio il nostro Paese fra declino irreparabile e sperato ripensamento profondo di sé (si veda la suggestiva comunicazione di Pellegrino Capaldo Per una nuova Italiadisponibile sul sito omonimo ma anche citata su qualche recente giornale); lo sono anche molti dei singoli “pilastri” delle nostre politiche più recenti (dal welfare, alla disciplina del lavoro, alla politica dell’immigrazione; da ultimo, per esempio, padre Giovanni La Manna, in un appello sulla politica sui migranti dalla Libia, solo qualche giorno fa, commentava: “L’Italia in questo momento si trova a un bivio: ha la possibilità di gestire la situazione con senso di civiltà o, come in passato, fare come se nulla fosse condannando e consegnando migliaia di persone all’illegalità”).
In fondo anche De Rita, solo pochi mesi fa (Rapporto Censis 2011), dopo aver constatato partim dolore partim verecundia (in parte con dolore, in parte con vergogna) il declino evidente del nostro paese, evocando “la prospettiva vitale del tornare a desiderare”, scriveva: “Non è possibile pensare che di fronte a questa regressione del nostro sviluppo sociale, economico e civile si possa restare neghittosi e immobili, rimpiangendo lo sviluppo che fu e dubitando che “in noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento”.”
Per certi aspetti e dal punto di vista etico lo è, ad un bivio, anche l’uomo dei nostri tempi mediatici, stretto tra vanitas e veritas come scriveva solo domenica scorsa mons. Bruno Forte su Il Sole 24 ore, L’Italia è ad un bivio tra vanità e verità).
Il bivio, insomma, appare oggi, nella sua accezione metaforica, una parola come tornata di moda, quasi se ne avesse nostalgia dopo facili strade in incontrollata discesa; l’intenzione sembra essere quella di indicare una scelta radicale, quasi digitale, fra prosecuzione meccanica delle nostre coazioni all’agire politicamente continuista (stesse retoriche, stesse paralizzanti interdizioni reciproche, stessi preconcetti, stesse miopie) e prospettive palingenetiche nella mentalità e negli atteggiamenti creativi, come gemmati da una presunta nuova vitalità.
Il fatto è che – al di là della effettiva consistenza di queste percezioni o speranze ( lo vedremo nei fatti) – ogni bivio, come ogni scelta radicale, implica rischi di incomprensione, di insufficiente valutazione del contesto, di erronea considerazione di quanto comunque accadrebbe, di miopie egoiste, di incapacità a fare i conti con la realtà e con i tempi. Questo è quel timore delle “pance” cui alludo spesso quando tento di traguardare cosa ci aspetta dietro l’angolo del 2013.
Bene. Prescindiamo da questo rischio, per il momento: se sulla ineludibilità del bivio ci sentiamo confortati, penso sia giusto cercare di trovarne “lo spirito” per adattarci ad una “ricostruzione” (di una “nuova ricostruzione” parlava anche Michele Salvati su il Corriere della sera del 5 marzo) , come una volta gli Americani trovarono lo spirito della frontiera per adattarsi ai cambiamenti di un popolo in espansione.
Il fatto è, ancora, che io sono convinto che al di là del bivio non ci potranno portare gli attuali partiti (non parlo di quelli che si fanno carico di animare “le pance”, ma degli altri) ma solo un profondo movimento di opinione che trasversalmente li obblighi a ripensare funditus (dalle fondamenta) la loro cultura e le loro prospettive temporali, spostandole dall’orizzonte elettorale a quello generazionale. E questo, temo, si può realizzare solo se si attenua e ricompone la dialettica che da molto tempo inconciliabilmente li oppone, nonostante tutto quel che è successo, gli uni agli altri; salvo farci poi constatare che per fare le cose che era necessario fare l’usata dialettica si è dovuto deporla!
Troppo facile rilevare che per cambiare le dialettiche consolidate ed “automatizzate” occorre cambiare gran parte della classe dirigente dei partiti, cosa, questa, che non sembra negli orizzonti degli attuali partiti (se si eccettua il verticistico ricambio in atto nel PdL e l’inevitabile sfarinamento di vertice in corso nel PD ad esito delle sconclusionate primarie).
Appunto per questo siamo giunti al bivio!
E dunque? Il mio amico che vi citavo all’inizio, di solito un autentico campione dell’ottimismo della volontà, mi diceva, con qualche esagerazione cronologica, che ” è dal 1954 che sente parlare di palingenesi”. Stavolta sono io che – forse complice la primavera – credo che lo spirito del bivio sia in maturazione nella nostra società più in profondo di quanto non si possa credere: il 2012, con il suo carico di tagli alla capacità di spesa delle famiglie ( ancora non appieno percepiti) e di gloomy spirits dell’economia, funzionerà da catalizzatore: o le pance o il bivio, tertium non datur. E, poiché massimamente temo le “pance”, spero fortemente e…..disperatamente nel bivio.
Ho scritto spesso, quando vedo buio, “mi auguro di sbagliare”. Stavolta mi auguro di non sbagliare, perché in fondo è primavera e c’è molta luce d’ attorno.