La nostra vita quotidiana si popola di oggetti: utili, inutili, essenziali, ridondanti, doppi, tripli, che occupano i nostri spazi pubblici (le vie, le piazze) o privati (le nostre case, le nostre stanze, le scrivanie), e ora anche i nostri spazi mentali (con numeri, codici, password, nomi identificativi fantastici, neologismi incomprensibili e astrusi e per questo irricordabili). Cose, oggetti, di varie dimensioni e di diversi materiali, grandi, enormi, piccoli, pesanti, fragili, leggeri o solo virtuali, sempre più numerosi, perché sempre più freneticamente cambiano, si rinnovano , superati da altri che sostituiscono i precedenti. E noi compriamo, ammucchiamo, conserviamo con sempre maggior velocità e così i nostri spazi fisici e mentali progressivamente si restringono. Gli oggetti, le cose hanno il sopravvento e regolano la nostra vita quotidiana, i nostri bisogni di mobilità, di evasione, i nostri bisogni di cittadinanza: nati come facilitatori ora ci dominano. Ci stringono e restringono i nostri spazi di vita, ci soffocano. E’ giunto il momento di un giusto riequilibrio tra il nostro essere e il nostro avere: anche questo in fondo è un tema coerente con il Manifesto di vita olistica, proposto la settimana scorsa, tema che lancio come ultima riflessione vacanziera sotto l’ombrellone.
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Sono nato nel 1955. I miei primi ricordi, le mie prime fotografie risalgono al 1958 e sono di un quartiere a Sud Est di Roma, Don Bosco, in quell’epoca, ancora in costruzione e che andava a svilupparsi all’intorno dell’ enorme cupola della basilica (di Don Bosco appunto), una delle più grandi di Roma. Dalle foto emergono strade larghe, alberate, semi vuote, con qualche auto parcheggiata qua e là. In quel quartiere, in quella via abita ancora mia madre: le auto oggi sono costantemente parcheggiate in doppia e tripla fila, sulle strisce pedonali, sulle corsie per i disabili, sui marciapiedi, davanti ai cancelli.
Le strade, una volta immense, sono così ridotte ad una corsia claustrofobica, così come i marciapiedi. Quando vado a trovarla lascio anch’io l’auto davanti ai cassonetti dell’immondizia, se li trovo liberi, o in doppia fila col cartello a vista: per uscire citofonare alla scala C interno 12. Non provo neanche a cercare parcheggio: sarebbe come vincere al Super Enalotto.
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Quando ero piccolo non avevamo il televisore e lo andavamo a vedere a casa di una famiglia di amici che abitava nella scala di fronte: il televisore è stato il primo status symbol, che ricordo. Il primo grande oggetto che ha popolato le nostre stanze. All’inizio era solo nei bar, in salette dedicate, con tavolini e sedie. Poi arrivò nelle case: al massimo ce n’era 1, per le famiglie più abbienti, in camera da pranzo. Un bel giorno il televisore, enorme, marca Radio Marelli, si insediò anche nella nostra camera da pranzo e non avemmo più l’obbligo serale di uscire, attraversare il cortile e per andare a vederlo a casa degli amici. Il televisore affinò la democrazia in famiglia. All’inizio c’era solo il primo canale e quindi la scelta era obbligata. Ma quando arrivò il secondo (e solo molto dopo, il terzo) le tensioni in casa crebbero in maniera esponenziale. Mio padre ad esempio era fissato coi varietà. Guai a perdersene uno. A me e mio fratello piacevano più i telefilm. Mia madre mediava. Mio padre, anche se in minoranza faceva valere l’autorità (o l’autoritarismo, non a caso era un poliziotto) e ci obbligava a vedere il suo programma preferito. A me e mio fratello non restava che la resistenza gandhiana. Così mentre mio padre vedeva i varietà io e mio fratello cantavamo a squarciagola per disturbare l’ascolto. Ora, che la democrazia si è affermata, ma è meglio non metterla alla prova, a casa mia ce n’è uno in ogni stanza compresi cucina e ripostiglio, così ognuno vede (o non vede) quello che vuole.
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Poi la competizione tra le famiglie del caseggiato si orientò su altri beni: prima la cucina a gas, quella col forno, che sostituì quella con 3 o 4 fornelli (che tuttora uso in campeggio). Poi ecco il frigorifero. Ricordo ancora il giorno che ce lo portarono: stetti tutto il pomeriggio alla finestra, poi verso sera ecco due sagome arrivare dal cancello con un enorme pacco di cartone. Attraversarono tutto il cortile e si infilarono nella nostra scala: finalmente era arrivato, marca Zoppas, bianco, enorme. Era finita l’era di mettere i salumi d’inverno fuori la finestra dentro una retina. Ignoro come facessimo d’estate. Probabilmente la spesa si faceva volta per volta, senza pensare a fare provviste. Del resto mia madre non lavorava e il suo lavoro, quello di casalinga, proprio in quello, e altre cose, consisteva. Solo successivamente – ero già grande – si affermò, tra il generale scetticismo, la lavastoviglie, che in molti consideravano inutile (all’inizio anch’io). Frigo, cucina a gas con forno, lavastoviglie: la grande cucina di casa mia diventava sempre più stretta.
Autovettura, televisione, frigorifero, ecc. tutti beni di cittadinanza, che in un’Italia in crescita si affermavano come identitari di una svolta economica e cominciarono a modificare le nostre abitudini, a riempire la nostra esistenza, e anche fisicamente andavano ad occupare sempre più i nostri spazi pubblici (le strade) o privati (le case). E chi li possedeva veniva accreditato come facente parte del boom: l’avere cominciava a prevalere sull’essere.
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Dopo un ventennio di pace tra prodotti simbolo ecco arrivare le nuove tecnologie coi suoi nuovi prodotti: il computer e il telefono cellulare.
Il telefono cellulare la prima volta che lo vidi esibito fu durante una riunione all’inizio degli anni 90 con l’amministratore delegato di una compagnia di navigazione. Era una riunione tesa, importante, costui si sedette al tavolo rotondo, ma prima tirò fuori dalla borsa una specie di mattone nero con una grande antenna, sarà pesato un chilo e lo mise sul tavolo come fosse un’arma, come dire “statevi attenti a come parlate” : la sua presenza minacciosa, condizionò l’esito della riunione. Da status symbol di posizione gerarchica aziendale il telefonino uscì dalle imprese (dove prima era concesso solo gli alti vertici manageriali, poi a quelli intermedi e ai quadri e infine a quasi tutti i dipendenti) per diventare un bene d’uso corrente per comunicare. Oggi indispensabile, irrinunciabile, che ci costringe a tornare a casa se lo dimentichiamo. Sempre più sofisticati, con funzioni, sempre più avanzate, che cambiano sempre più rapidamente. Mentre la società degli anni Novanta si cristallizzava (era la società densa, di cui parlava De Rita) le varietà dei cellulari invece si moltiplicavano: e in casa mia tra modelli vecchi, ancora funzionanti, ma non più utilizzati, e nuovi, ne conto oggi 11. Stessa sorte fu per il computer. I primi che lo ebbero in casa erano considerati degli scienziati della NASA, si stentava a capirne le applicazioni domestiche e anche in ufficio era visto con una certa diffidenza, creando sconcerto soprattutto quando sembrò evidente che andava a sostituirsi alla macchina da scrivere e alla penna. Poi divenne anche lui un genere di largo consumo, anzi di tanto largo consumo che possiamo considerarlo quasi uno status symbol al negativo, per chi non lo possiede o non lo sa usare (io a casa in famiglia tra portabili piccoli, medi e fissi ne ho 6).
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Penso che in questo momento tre siano gli oggetti reali o virtuali a connotare nel bene e nel male la nostra sfera esistenziale quotidiana: le carte di credito, le password, i telecomandi.
Se apro il mio portafoglio, lo vedo gonfio di card di vario tipo: la tessera sanitaria, la carta di credito, il bancomat, la tessera della metro, la tessera di SMA, la tessera del GS, la tessera del DLF, la tessera del gruppo sanguigno, la tessera del distributore di benzina, la tessera Millemiglia Alitalia, la tessera Conad, la tessera Navigare. Altre le ho deposte in una brocca di ceramica in salone. Le cose non vanno meglio coi telecomandi. L’altra sera sul tavolino di fronte al mio divano annotavo in ordine sparso: il telecomando del televisore, il telecomando del decoder HD, il telecomando del videoregistratore, il telecomando dell’aria condizionata, il cordless dimenticato da mia figlia e il mio cellulare (in fondo assimilabili anche questi ad un telecomando), il telecomando della cornice fotografica digitale. Puntualmente sbagliavo a prendere il telecomando giusto: così cercavo di aprire l’aria condizionata col telecomando del decoder, la televisione con quello del decoder, l’aria condizionata con quello della TV, ecc ecc.
Peggio succede con le password e i cosiddetti ID, che non occupano fisicamente spazio, ma occupano il nostro spazio cerebrale fino all’impossibile memorizzazione. Ho password e ID per entrare nel sito internet della banca, in Expedia e in altre 2 grandi agenzie di viaggi on line, nel sito INPS, in quello delle Poste, in quello dell’assicurazione, 3 per ogni compagnia aerea, nel comune di Roma, su EBay, su Paypall, della PayTV, ecc ecc. Poi ci sono i codici di accesso di protezione: ai vari computer, alle carte di credito, ai bancomat, alle carte ricaricabili, ai cellulari. Io ho anche in carico quelli di mia moglie e delle mie figlie, che fanno fede nel mio ordine e a me chiedono le loro password. Password, Id e codici sono sempre diversi, è impossibile ricordarli,spesso sono a tempo e bisogna rinnovarli, così ho dovuto prevedere un file intitolato Password e codici, ormai arrivato a tre pagine.
E questo è il presente: la nostra vita si popola di card, telecomandi, password che si assommano ai nostri cellulari, vecchi e nuovi , ai tanti caricabatteria ognuno diverso per ogni tipo di cellulare, ai computer fissi e mobili, dagli schermi piatti, in uso, a quelli enormi in disuso, ai televisori, presenti ormai in ogni camera (anche qui raggiungo il numero di 6, con relativi 12 telecomandi). Questo in casa. Fuori ci aspettano le nostre due o tre autovetture e relativi motorini, parcheggiati a strati in ogni dove. Non ci possiamo più muovere senza questi oggetti e oggettini che regolano i nostri passi quotidiani, condizionano le nostre azioni, si impadroniscono di noi. Li dobbiamo sempre avere vicini, presenti, utilizzabili, più ne abbiamo più ci sentiamo in grado di fare, di essere attivi, di organizzare e passare il nostro tempo: di esistere.
Siamo sicuri di stare meglio? Di vivere meglio? Non ne stiamo diventando troppo dipendenti?
Finché un giorno si romperà l’hard disk e scomparirà il file Password e codici o perderemo il portafoglio con tutte le nostre card. O più semplicemente andrà via la corrente. E ci ritroveremo nudi, soli, nel panico.
E tornerò ad apprezzare quei momenti di attesa, da bambino, alla finestra, quando aspettai tutto il pomeriggio, ansioso per la novità, l’arrivo del frigorifero… Senza immaginare che dopo di lui la nostra esistenza sarebbe profondamente cambiata.