Non mi cimenterei neanche nella scrittura di questo post se non potessi avvalermi dell’inconsapevole collaborazione di Alessandra Sciurba, che ha scritto un ottimo articolo (LINK) che citerò qua e là e che sentitamente ringrazio per l’ottimo lavoro che fa (ho avuto anche la fortuna di incontrarla personalmente).

Partiamo dunque dalla notizia: Alcune delle maggiori organizzazioni sociali e sindacali che in Italia sono impegnate per il rispetto dei diritti e della dignità dei migranti (Arci, Asgi, Centro Astalli, Senza Confine, Cir, Cgil, Uil, Sei Ugl, Fcei, Focus-Casa dei Diritti Sociali) hanno convocato per martedì 30 ottobre una manifestazione a Roma per chiedere al governo ”risposte certe sulla sorte delle migliaia di persone giunte nel nostro Paese dalla Libia in guerra nel 2011”. (ASCA) Per la cronaca, l’appuntamento è a piazza del Pantheon alle 14.

Ma io temo che di questa triste vicenda, su cui iniziano ad uscire articoli poco edificanti (questo su Repubblica, dopo la più corposa inchiesta su L’Espresso…), non possa essere comprensibile solo dai fatti di oggi. Troppo facile (e pericoloso) passare il messaggio che “tanto sui rifugiati ci si mangia e basta”. Allo stesso tempo è necessario capire come mai fatti come quelli riportati possano essersi verificati, e continuino anzi a verificarsi.

La vicenda è lunga e intricata. Provo a raccontarvela così come la capisco io. Piccolo, necessario, disclaimer. Mi occupo di queste cose per lavoro, ma questo è evidentemente il mio blog personale. Penso che sia opportuno ricordarlo, anche se non mi pare di avere sostanziali divergenze di opinioni sul tema con l’ente per cui lavoro. In ogni modo, quello che qui dico esprime – come sempre – la posizione di Chiara e non quella del Centro Astalli.

Parliamo di numeri

Torniamo ancora una volta a maggio 2009. L’inizio dei respingimenti in Libia dei migranti intercettati in mare. L’Italia è stata condannata per questa pratica, a posteriori, dalla Corte di Strasburgo. Perché comincio da qui? Perché questo è l’inizio dello “sballamento” definitivo della nostra percezione dei numeri, che era già molto lontana dalla realtà. In tutto il 2010, con il Mediterraneo bloccato e Lampedusa vuota, le domande di asilo in Italia sono state 10.052, contro le 47.791 della Francia. Questo numero irrisorio (per darvi un paragone, quello stesso anno in Sud Africa ne sono state presentate 180.600 e negli Stati Uniti 54.300) è stato comunque mal gestito. Appena 3.000 i posti di accoglienza del sistema nazionale deputato a ciò, già saturi. Percorsi di integrazioni traballanti come e più del solito. Per quanto riguarda l’esito di queste domande, su un totale di 14.042 esaminate (le commissioni hanno sempre un arretrato dell’anno prima), il totale delle persone che hanno ottenuto una qualche forma di permesso di soggiorno sono state 7.558. Insomma, non esattamente un’invasione.

Poi inizia il 2011 e i numeri aumentano.

Qui lascio la parola a Alessandra: “Va detto innanzitutto come il relativo aumento degli ingressi dei richiedenti asilo che si è registrato in quel periodo sia da ricondurre non solo e non tanto all’incremento delle partenze dei profughi in fuga da situazioni di violenza e instabilità, ma soprattutto al dissolversi degli accordi bilaterali che l’Italia aveva instaurato da anni con i dittatori Ben Alì e Gheddafi in tema di migrazione. A quei tiranni improvvisamente diventati (o ritornati ad essere, come nel caso di Gheddafi), i nemici delle democrazie occidentali, erano state affidate fino a quel momento, in modo più o meno diretto, le vite di centinaia di migliaia di rifugiati attraverso la pratica criminale dei respingimenti in mare, o tramite l’esternalizzazione del controllo delle frontiere.

Nonostante ciò, in tutto il 2011 hanno fatto richiesta di asilo in Italia “solo” 34.117 persone. Lo stesso anno, in Francia, sono state inoltrate 51.913 istanze.”

In altri termini: la Tunisia e la Libia avevano il ruolo di bloccare le persone in arrivo in Europa, a prescindere dal motivo del loro viaggio. Il caso della Libia era particolarmente drammatico, perché tutti i rifugiati del Corno d’Africa transitano da lì. Ma anche la Tunisia operava il suo ruolo di controllo della frontiera al di là dei riflettori più che efficacemente. Per un po’ il tappo salta. Persone diverse che erano rimaste bloccate in Tunisia o in Libia arrivano in Europa. Dalla Libia però arrivano relativamente pochi libici: moltissimi i profughi, del Corno d’Africa o dell’Africa subsahariana, molte anche le persone che in Libia lavoravano e sono state sorprese dalla guerra. Emergenza, emergenza. Ma era un’emergenza vera? Ancora una volta l’Italia, nonostante la sua posizione geografica, ha un numero di domande d’asilo inferiore alla Francia. Il che spiega, anche se non giustifica, la reazione inferocita della Francia, che ha blindato la frontiera di Ventimiglia perché i tunisini arrivati in Italia là restassero: la storia dell’emergenza a loro non è mai andata giù.

Ma noi l’emergenza a Lampedusa l’abbiamo vista

Chi mi conosce un po’ sa che quando mi si nomina Lampedusa, specialmente alle riunioni con i colleghi stranieri, io inizio a vedere rosso. A ottobre scorso ho mormorato a un collega dell’ufficio di Bruxelles questo testuale avvertimento: “Fammi un’altra domanda che contenga la parola Lampedusa e ti mordo”. Tutti lo hanno trovato molto spiritoso, ma io ero serissima. Lui deve averlo intuito, e da allora abbiamo parlato d’altro.

Lampedusa è ormai un set cinematografico. Il suo scopo è, esattamente, quello di creare emergenza. Era successo nell’estate del 2008, quando Maroni inopinatamente diede l’ordine di bloccare i trasferimenti da questa piccola isoletta più vicina alla Tunisia che all’Italia e, come previsto e voluto, scoppiò tutto. Perché, ovviamente, le persone soccorse o sbarcate a Lampedusa, quando tutto va come deve andare, vengono entro qualche giorno trasferite in Sicilia o in altro luogo della lunga penisola italiana. Lampedusa fa parte dell’Italia, mica è stato indipendente. Ma si presta, eccome se si presta.

Lascio ancora la parola a Alessandra: “Anche alla luce di questi dati, si coglie fino a che punto l’allarme lanciato dall’Italia nel momento della cosiddetta “emergenza nord-africa”, a seguito delle rivolte democratiche, risulti pretestuoso. Per giustificarlo, in quei mesi Lampedusa è ritornata ad essere, come tante altre volte era successo, lo scenario dove mettere in atto lo spettacolo della frontiera. È stato sufficiente bloccare i trasferimenti dall’isola per poche settimane, per materializzare l’immagine più estrema dell’assalto al territorio italiano. Poche migliaia di persone abbandonate su quei pochi chilometri quadrati di roccia, a dormire per terra senza nessuna forma di accoglienza, sono state rappresentate come un pericolo ingestibile se affrontato con le procedure ordinarie, e cui tenere testa quindi col ricorso a decreti di emergenza che hanno gettato il paese in un clima di panico da guerra in corso”.

Lo spettacolo della frontiera. Che espressione efficace. Uno spettacolo drammatico, di cui ancora c’è chi paga le conseguenze. Il centro di primo soccorso è rimasto danneggiato da un incendio e quindi chiuso. Da allora, fino ad oggi, non è stato ripristinato. Lampedusa è stata dichiarata “porto non sicuro”. Un termine tecnico, in realtà anche una gran furbata. Quando si soccorrono dei naufraghi in mare, l’obbligo è di portarli al porto sicuro più vicino. Mettendo fuori gioco Lampedusa, possiamo sperare che Malta se ne becchi di più. Non commentiamo. Ricordo solo che sono uomini, donne e bambini quelli che ci si rimpalla, manco fossero rifiuti tossici.

Cos’è l’emergenza Nord Africa, allora?

Si è detto che, comunque, avevamo deciso di considerare la situazione straordinaria e di gestirla con misure di emergenza. Così è stato. Si è proceduto a un artistico collage di provvedimenti, sul cui dettaglio non mi soffermo (uno è stato il rilascio di permesso di soggiorno di un anno ai tunisini arrivati in una certa finestra temporale, accompagnato dalla speranza – anche esplicitata – che se ne andassero tutti in Francia: della reazione dei francesi abbiamo parlato sopra). Oggi ci interessa soprattutto l’accoglienza di queste persone, specialmente di quelle arrivate dalla Libia. Si sono trovati fondi straordinari e, ovviamente, non si è andati a potenziare il circuito esistente di accoglienza decentrata di richiedenti asilo, che è ottimo ma nettamente insufficiente. Troppo facile. Che emergenza sarebbe senza la Protezione Civile? Scende in campo la Protezione Civile.

A questo punto, paradossalmente, lo status giuridico delle persone viene messo scientemente in secondo piano. Bisogna piazzare queste persone sul territorio? (Se ne aspettavano 50mila, ne sono arrivate poco più di 34mila). Le si piazza, di autorità. Alle regioni viene assegnata una quota di posti e le regioni devono farli saltare fuori. Per certi versi funziona: i posti saltano effettivamente fuori. A riprova del fatto che avere numeri meno ridicoli non sarebbe neanche impossibile, con un minimo di programmazione. Ma ci sono diversi problemi.

Il primo, banale: questi posti che saltano fuori non sono tutti uguali. E qui si rimanda agli articoli di cui sopra. C’è chi ha fatto un ottimo lavoro (questi non vanno sui giornali, chiaramente), c’è chi ha usato i soldi per riempire alberghi vuoti. E poi è l’Italia a non essere tutta uguale: per gli stessi soldi spesi, ci sono profughi che sono stati accolti in tendopoli e profughi che hanno avuto le chiavi di un appartamento. Totale disomogeneità, come pure ancora diverso è il trattamento che nel frattempo riceve chi continua ad arrivare in fuga con le sue gambe, a prescindere dall’”emergenza” del momento (gli afghani, ad esempio).

Ma il secondo problema è più di sostanza. La Protezione Civile ha mandato di alloggiare queste persone, come alloggerebbe le vittime di un terremoto. Ma un richiedente asilo oltre al tetto sopra la testa ha anche altri bisogni, che vengono nella maggior parte dei casi ignorati (o lasciati alla buona volontà di chi passa): deve capire la procedura, deve essere assistito e orientato durante l’iter, deve possibilmente imparare la lingua. Al 31 dicembre 2011 si è ancora a carissimo amico. La maggior parte delle persone accolte in questo circuito straordinario non hanno ancora sostenuto il colloquio con la commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Gli scandali di cui ora parlano i giornali sono già noti. Ma non sono interessanti per nessuno. Senza stare troppo a pensarci, si proroga l’accoglienza di un anno. E poi si vedrà.

Cosa si è visto, ve lo racconto alla prossima puntata.