Gli accordi separati sono sconfitte per tutti. Per chi firma e non riesce a persuadere i renitenti. Per chi non firma e non riesce a conseguire i suoi obiettivi. Ci saranno probabilmente i soliti buontemponi a sostenere che per la Cgil si tratta di un successo perché così è salva la sua autonomia, ma si sbagliano.
I lavoratori non saranno chiamati a pronunciarsi. Non c’è il padrone a chiederlo. Del resto Marchionne ha voluto i referendum non perché ci tenga alla democrazia sindacale, ma per la ragione che riteneva di non poter contare sui sindacati firmatari quali garanti della pace sociale. Sicchè ha preteso lui di coinvolgere i lavoratori nella decisione.
Adesso abbiamo ripristinato la filosofia del Libro Bianco dell’ottobre 2001 (Biagi e altri) dove si proclama che non possono essere i lavoratori a scegliere chi li rappresenta, ma il padrone a scegliere i sindacati secondo la pratica del “reciproco riconoscimento”. Sulla base di questa impostazione si proclama comunque di voler dare attuazione all’accordo del 28 giugno 2011 sulla rappresentanza. Cioè l’esercizio di fischiare e succhiare allo stesso tempo. Se sono rose pungeranno qualcuno.
Il piatto forte dell’accordo si fonda su una assurdità. L’assunto è che occorra spingere i sindacati a fare il loro mestiere; cioè contrattare nei luoghi di lavoro e nel territorio. Ed appare, dalla dialettica prevalente, una Cgil che sarebbe contraria a tale condotta.
È una scena che mi fa soffrire. Forse perché sono di quella generazione arrivata al sindacato dopo il quinto Congresso, quando la Cgil guidata da Agostino Novella scelse la linea della contrattazione articolata che per tutti gli anni sessanta fu conquistata pezzo per pezzo costruendo un potere contrattuale che si espresse poi nel 1969-1970 con autunno caldo-contratti nazionali-statuto dei lavoratori.
Circola oggi una tesi alquanto singolare. Sarebbe sbagliato puntare sulla contrattazione decentrata perché a quel livello si è più ricattabili. Invece nel negoziato nazionale si sarebbe più al sicuro. Ma si è mai visto un sindacato debole nelle aziende e forte, invece, ai tavoli nazionali? E da cosa deriverebbe questa forza dalla abilità dialettica dei negoziatori e dalle loro frequentazioni televisive?
Qualcosa del genere (salvo la tv) si vede in taluni settori non da prime pagine. Il caso più evidente è quello degli studi professionali. La forza è derivata da un sindacato che è stato capace di difendere i lavoratori e al tempo stesso proporre soluzioni “interessanti” per i datori di lavoro e le loro rappresentanze associative.
Mia opinione è che, in questa fase, ci sia proprio un problema di ricostruire un potere contrattuale del sindacato verso tutti gli interlocutori padronali e politici. E penso che questo passi proprio per una fase generalizzata di contrattazione decentrata.
Ciò implica che sia il sindacato a proporre una sfida alle imprese: produttività, efficienza e competitività si realizzano con noi negoziando tutto. Ed è la Cgil per prima che doveva e dovrebbe lanciare la sfida.
Gli incentivi sono una assurdità. Se si dispone di risorse vanno destinate ai più poveri e precari non a chi è abbastanza tutelato da potersi permettere di negoziare il premio aziendale.
In una contrattazione decentrata efficace bisogna sapere che si parte da dove si sta. Se c’è una quota di lavoratori precari e/o sottopagati con i vari trucchi che sappiamo (cocopro, partite iva e seguenti) questo è il primo problema da affrontare, anche con soluzioni graduali. Anche chiedendo ai fissi di mettersi in coda per un turno.
Se contratti in azienda è più difficile sfuggire e scantonare da questi problemi ignorandoli nelle piattaforme e nei negoziati. Nei contratti nazionali questa fuga è più facile, magari mascherata da indeflettibilità dai principi generali.
Ben sappiamo tutti quanto lo spararle grosse sia spesso un modo per mascherare le magagne.
Ci si figuri che la mia Cgil, nel dicembre 2003, ha fatto un convegno per proclamare che era da archiviare la pratica dei patti di gradualità per superare il lavoro nero e sommerso. Niente gradualità: tutto e subito e con gli arretrati. Fiasco completo, ma con una novità: la nascita di forme di sindacato sommerso. Cioè si negozia da dove si sta, ma non se ne parla e quindi, ancor meno, ci si ragiona sopra.
Tuttavia è proprio Susanna Camusso, su L’Unità del 3 ottobre a riconoscere: è “chiaro che abbiamo sbagliato qualcosa, se gran parte del lavoro oggi è precario. Per anni l’obiettivo del sindacato è stato abolire la Legge 30 del 2003. Invece, avremmo dovuto pensare a contrattualizzare chi aveva una forma di lavoro flessibile”.
Ancor più assurdo lo sconto fiscale per le ore straordinarie assimilate a produttività. Si facciano un po’ di conti. Si scoprirà che un’ora di lavoro straordinario è pagata e costa meno che un’ora ordinaria. Infatti le maggiorazioni per lavoro straordinario non coprono mai la perdita dei ratei delle voci differite della retribuzione (tredicesima, ferie, tfr ecc.). Perciò prima bisognerebbe dire ai padroni pagate lo straordinario almeno quanto l’ordinario e poi si potrà pensare ad altro.
È molto grave l’atteggiamento di sufficienza con il quale taluni personaggi politici e del mondo imprenditoriale hanno trattato la decisione Cgil di non firmare. Sono arroganti e, soprattutto, pensano di essersi garantita la pace sociale anche senza la firma della Confederazione più rappresentativa.
Non si cambia questo scenario con uno e neppure con due scioperi generali.
Nelle relazioni sociali e sindacali non basta avere ragione se non hai la forza per farla valere. Se poi le tue proposte sono poco convincenti anche per chi vuoi rappresentare allora rischi la marginalità.
Cgil sta lavorando a definire una proposta di Piano del lavoro. Mi pare una buona idea. Se diventasse un modo per scantonare dai problemi descritti prima potrebbe preparare nuove delusioni.