Bologna: «valori» al posto dei bambini
In un Paese meno avvelenato dalle dispute ideologiche e dai risentimenti, l’argomento usato da Romano Prodi a favore del sistema degli asili bolognesi taglierebbe la testa al toro: «Perché bocciare un accordo che ha funzionato bene per tanti anni e che ha permesso, con un modesto impiego di mezzi, di ampliare almeno un po’ il numero dei bambini ammessi alla scuola d’infanzia?». Quel sistema, come si sa, comprende sia scuole materne statali (poche, il 17% degli alunni), sia scuole materne comunali (tante, il 60%), sia scuole convenzionate gestite da privati, quasi tutte di ispirazione cattolica (che garantiscono 1.825 posti-alunno, il 23% dei bambini di Bologna). I promotori del referendum, presieduti da Stefano Rodotà, chiedono invece di mettere fine al contributo del Comune che va alle private (un milione e centomila euro, il 2,8% dei 36 milioni complessivamente stanziati). E dell’argomento di buon senso usato da Prodi (il 23% dei bambini con il 2,8% dei fondi) non sanno che farsene. Nella lettera pubblicata ieri dal Corriere, per esempio, Rodotà non usa mai una volta la parola bambini. Preferisce concentrarsi sui principi, sui valori, sui diritti. Nasce da qui il sospetto, esplicitato dal sindaco di Bologna Virginio Merola, che «questa consultazione sia usata come un grimaldello politico per fare male al Pd», e che si trasformino gli asili di Bologna in un «laboratorio per sperimentazioni della cosiddetta nuova sinistra» composta da Fiom, Sel e Movimento 5 Stelle.
Questo approccio così radicalmente diverso tra Prodi e Rodotà, due figure entrambe care alla sinistra italiana, spiega bene perché il referendum di domenica prossima è così importante. Si potrebbe definirlo un perfetto esempio della vera e propria culture war, della battaglia culturale che dilania il fronte progressista. Prodi rappresenta la via inclusiva, quella che ha un’idea aperta del «pubblico», che accoglie sotto la tenda dell’interesse generale anche attività e iniziative dei privati e del non profit, forse anche in ragione di una concezione cristiana della centralità della persona; Rodotà interpreta invece con intransigenza una via esclusiva, in cui solo lo Stato rappresenta il «pubblico» e tutto il resto deve restare fuori dal suo perimetro, più che mai se ha a che fare con la Chiesa. I referendari, infatti, non chiedono solo più fondi alla scuola comunale: chiedono che siano tolti a quella non comunale.
In effetti la sinistra italiana ha già sperimentato entrambe queste strade: con successo quando a guidarla fu Prodi, capace appunto di ampliarne i confini, per esempio al mondo del volontariato, e di far rivivere nell’Ulivo quel dialogo tra sinistra e cattolici che aveva scritto la Costituzione; con minor successo quando Rodotà era il presidente del Pds di Occhetto, che alle elezioni del ’92 ottenne il 16% dei voti, minimo storico della casa. Ma, del resto, in Italia si tratta di una guerra antica. Fu proprio sul finanziamento alla scuola privata che si aprirono le prime due crisi di governo del centrosinistra, nel 1964 a opera dei socialisti e nel 1966 della destra Dc.
Eppure questo conflitto dovrebbe essere considerato ormai risolto dal 2000, quando la legge Berlinguer sulla parità scolastica, approvata da una maggioranza di centrosinistra sul modello suggerito da Aldo Moro durante i lavori della Costituente, stabilì che «le scuole private sono solo quelle che restano fuori dal regime di applicazione della legge, e le altre sono a tutti gli effetti pubbliche» (Stefano Ceccanti su landino.it). Il sistema pubblico è dunque oggi pluralistico, fondato su scuole statali, paritarie comunali, e paritarie a gestione privata, e lo Stato non ha il monopolio dell’educazione pubblica. Del resto una legge analoga regola fin dagli anni 50 la scuola nella laicissima Francia, e fu adottata dalla Spagna del socialista Felipe Gonzalez negli anni 80.
Rodotà e i promotori del referendum non accettano invece di definire come «pubblico» un sistema di cui facciano parte i privati, dunque ritengono che la Costituzione sia violata da vent’anni in Emilia e altrove. Questa posizione considera infatti incostituzionale anche la legge Berlinguer, e molti credono che Bologna sia solo l’inizio di un’offensiva che punta ad abrogarla, nonostante la scuola dell’infanzia paritaria ospiti ormai un milione di bambini.
Però l’argomento della legalità costituzionale è tutt’altro che pacifico. Già nel 2003 si provò a far cadere la legge sulla parità scolastica per via referendaria, ma il quesito non venne ammesso dalla Consulta; tra le altre ragioni perché, come scrissero i giudici costituzionali, «il principio della esclusione dal sistema scolastico nazionale che si pretende di introdurre in via referendaria rende attiva una connotazione discriminatoria a carico delle scuole private, pur a fronte di una disciplina dettagliata che realizza un sostanziale sistema di parità».
Forse la nostra Costituzione è «la più bella del mondo» anche perché affida ai giudici, e non ai sacerdoti del diritto o ai movimenti, la sua interpretazione.
Antonio Polito
Il link all’articolo dal sito del Corriere: