1 La struttura economica dell’Italia è ancora importante. Siamo l’8° potenza economica per PIL*, la 10° per ricchezza netta procapite, abbiamo posizioni di forza in molti settori di base come la metalmeccanica (secondi in Europa dietro alla Germania), i prodotti chimici , le fibre sintetiche (quarto produttore in Europa) e il comparto dei prodotti per la difesa (7° nel mondo ).
Possiamo vantare 1022 nicchie di eccellenza di prodotto, 101 distretti industriali e un mercato di 60 milioni di residenti .Per collocazione geografica siamo una piattaforma ideale per l’accesso all’Europa e ai paesi del bacino del Mediterraneo. Purtroppo le buone notizie finiscono qui.
I reports dei centri di ricerca internazionali, basati sull’analisi di una pluralità di indicatori, forniscono da tempo un quadro cupo del nostro Paese che sembra lasciare poche speranze di progresso e di miglioramento.** Tra l’altro la World bank, il World Economic Forum, l’FMI certificano l’incapacità cronica del nostro Paese ad attrarre investimenti dall’estero(IDE). Il trend negativo degli ultimi anni ,che si è accentuato con il crollo dell’anno scorso (meno 70% ), rende impietoso e drammatico il confronto con gli altri paesi. Con l’1% di IDE rispetto al PIL siamo al penultimo posto dopo la Spagna e prima della Grecia. E ciò è particolarmente grave essendo ormai accertato che in un mercato globale un indicatore significativo sullo stato di salute di un sistema paese è proprio quello relativo alla sua capacità di attrarre investimenti dall’estero . Gli IDE infatti contribuiscono direttamente e indirettamente all’attività economica in termini di PIL, lavoro ed entrate fiscali. Hanno inoltre un Impatto positivo sulla produttività per quanto riguarda il know how, gli skill manageriali , l’innovazione e soprattutto migliorano i livelli di competitività. Secondo uno studio della Confindustria nel 2009 le aziende straniere in Italia pur rappresentando solo lo 0,3% del totale davano lavoro al 7% degli occupati generando oltre il 12% del valore aggiunto e il 24% della spesa in ricerca e sviluppo di tutto il nostro paese. Ma perché gli imprenditori stranieri hanno drasticamente ridotto la loro presenza nel nostro paese?
La risposta è semplice. Quando una multinazionale*** decide il paese in cui investire non valuta solo i fattori economici come ad esempio il costo del lavoro (che tra l’altro da noi è tra i più onerosi d’Europa) ma verifica una serie di fattori organizzativi e strutturali: il tasso di crescita del paese, la capacità del sistema di creare un business enviroment favorevole ed attraente per la circolazione dei capitali, la garanzia di omogeneità normativa, la certezza su tempi e procedure, la capacità dell’educational enviroment di fornire skills professionali adeguati e infine il livello e la diffusione sul territorio delle infrastrutture tecnologiche.
2 Purtroppo i rank negativi registrati dal nostro Paese, sia per i fattori strettamente economici che organizzativi e strutturali, offrono un quadro sconfortante che sembra motivare la scarsa propensione degli imprenditori stranieri ad investire.
Siamo al 73°posto per facilità di fare impresa ,al 42°posto per competitività. Ai fattori relativi alla difficoltà di fare impresa si aggiungono fattori quali l’alto costo del lavoro, la bassa produttività, l’alto costo del credito alle imprese e dell’energia , gli elevati livelli della total tax rate (% dell’utile ante imposte), la bassa efficienza della logistica (siamo al 24° posto).
Siamo al 142° posto per complessità della regolamentazione,al 30° posto per ricerca e innovazione, al 136°posto per flessibilità del lavoro.
3 La situazione non è certo migliore per quanto riguarda l’educational enviroment, variabile strategica per competere a livello globale .
Abbiamo 0 università nelle prime 100 del mondo e solo 4 Università nelle prime 200.
Secondo il recente test PISA dell’OCSE le capacità di lettura e le conoscenze matematico/ scientifiche dei nostri studenti di scuola media sono risultate inferiori alla media dei principali paesi industrializzati con un ampliamento del divario, nel corso degli anni, per tipo di scuole e zone geografiche del nostro paese. Altro dato preoccupante è il livello di istruzione della nostra classe operaia che risulta sensibilmente inferiore alla media dei paesi OCSE.
A questi dati negativi va aggiunto il drenaggio, da parte dei paesi avanzati, dei nostri laureati e ricercatori più qualificati (brain drain ). Quelli che se ne vanno ,spesso, sono i “primi della classe”, i migliori delle rispettive generazioni rispetto a coloro che rimangono.
Ma,come è stato osservato, il problema italiano non sta tanto nella dimensione della fuga e nella perdita finanziaria (ogni laureato costa allo Stato italiano mediamente 500mila euro), bensì risiede nella scarsa capacità di attrazione di capitale umano dall’estero.
La soluzione, secondo esperti del settore, non è tanto nel trattenere chi vuole andare all’estero per seguire opportunità di carriera, quanto nell’attrarre un flusso analogo di cervelli in ingresso proveniente dagli Stati più avanzati. In altre parole occorre puntare al “pareggio di bilancio”, trasformando il brain drain in brain circulation.
Uno studio recente stilato dalla Business Intelligence Unit sull’Indice globale dei Talenti spiega come il nostro Paese arranchi nella “guerra dei cervelli” collocandosi al 23esimo posto nella classifica sulla “capacità di attrarre e produrre talenti”.
Sono pochissimi gli studenti che arrivano dagli USA, mentre Germania e Francia ne attirano 3.000 l’Inghilterra 13.000; dalla Cina sono 270 contro i 24.000 in Germania; dall’India sono 270 contro i 14.000 ospitati in UK. La maggioranza degli studenti stranieri in Italia proviene dai Paesi del Mediterraneo: la comunità più numerosa è quella degli studenti albanesi (8.500), che risulta 10 volte più grande di quella francese e 20 di quella spagnola.
Gli ostacoli all’ingresso degli studenti e dei ricercatori stranieri provenienti da paesi tecnologicamente avanzati, sono la carenza di investimenti nella ricerca scientifica (sia da parte dello Stato che delle imprese), i bassi salari, i modesti livelli di apertura del nostro sistema universitario caratterizzato dalla gestione clientelare dei fondi e delle carriere e dai modesti livelli di innovazione rispetto alle università straniere.
4 Anche l’attuale posizionamento dell’Italia per quanto riguarda le infrastrutture tecnologiche è preoccupante. Sembra che in questi anni la nostra classe dirigente abbia ignorato il contributo che la rete ha dato alla crescita globale, alla produttività ed all’occupazione dei paesi più avanzati.
Il McKinsey Global Institute (MGI) ha analizzato le Internet economies di 13 paesi maturi rilevando che Internet ha contribuito mediamente al 3.4% del PIL per arrivare a punte del 6 %, più dell’agricoltura, dell’energia e di altre industrie consolidate.
A livello occupazionale per ogni posto di lavoro distrutto Internet ha creato 2.4 posti di lavoro che, nelle 4,800 PMI investigate dalla ricerca MGI, raggiunge un tasso del 2.6.
È stato inoltre registrato che le PMI che utilizzano Internet in maniera intensiva crescono ed esportano ad un tasso doppio rispetto alle altre.
Da noi a causa dell’analfabetismo digitale l’utilizzo di Internet e dei servizi digitali è scarso.
Circa la metà degli italiani (53%) accede al web almeno una volta la settimana, rispetto al 70% della media europea. Tra l’altro con la percentuale più alta di persone che non hanno mai usato internet quasi il doppio (37%) rispetto al resto d’Europa, e quella più bassa di acquirenti online, solo l’11%, contro una media europea del 35, l’Italia vanta un gap digitale che sta rallentando la diffusione dell’eCommerce. Colpa anche delle nostre imprese, che nel 2012 mostrano una delle percentuali più basse nell’utilizzo del commercio digital.
Per quanto riguarda la diffusione poi della banda larga veloce (30 Mbps) l’Italia è penultima in classifica, seguita solo dalla Turchia.
Siamo insomma il paese dell’Europa dei grandi che ha più difficoltà a passare da un’economia fisica ad una virtuale.
È totalmente mancata in questi anni una reale conoscenza, da parte della nostra classe dirigente, dei vantaggi che poteva produrre l’economia virtuale. Di conseguenza è mancato un piano strategico di formazione degli italiani all’utilizzo di Internet sia da un punto di vista personale che professionale . Negli altri paesi, non solo quelli europei, a partire dagli anni 90 sono stai varati intensi piani di alfabetizzazione digitale che hanno visto sinergicamente coinvolti le istituzioni, il mondo della scuola, le associazioni di categoria e i media tradizionali.
5 In compenso la nostra classe dirigente sarà sicuramente orgogliosa di appartenere ad un paese che risulta essere ai primi posti mondiali per consumo di programmi televisivi .Che si caratterizzano per l’ossessiva ricerca dell’audience attraverso il sensazionalismo, la morbosità, la durezza delle immagini e delle parole, l’ossessiva esaltazione del danaro, del potere, del gioco. Con l’obiettivo evidente di disinformare****, attraverso un intrattenimento continuo (disinfontainment). Che questo modo di fare televisione abbia avuto un’influenza negativa in termini culturali e valoriali soprattutto per i bambini e i giovani) contribuendo alla deriva culturale del nostro paese non sembra avere attirato l’attenzione del nostro sistema politico e istituzionale. Che si è dimostrato in questi anni, tra l’altro, incapace di recuperare per la Rai un ruolo di servizio pubblico, di agenzia educativa in grado di produrre contenuti informativi/formativi per fare conoscere ad una popolazione, il cui livello d’istruzione per il 60% non va oltre la media inferiore, una realtà mondiale sempre più complessa .
6 Ma forse l’indice che aiuta a meglio spiegare il quadro drammatico sopra descritto è quello sulla corruzione. La classifica elaborata da Transparency International sulla base della percezione della corruzione da parte dei cittadini di 174 nazioni, segna nel 2012 un ulteriore grave arretramento del nostro Paese. Tra i paesi membri dell’Unione Europea, l’Italia è terzultima, seguita solo da Bulgaria e Grecia, mentre tra i paesi del G20 è 13esima.
La Corte dei Conti ha valutato l’ammontare della corruzione, divenuta sistemica, in 60-70 miliardi di euro ogni anno. Cifra sottratta alla nostra collettività, ai servizi, alle opere pubbliche e agli investimenti. In un sistema politico dove la corruzione è pratica quotidiana , il vincolo di fiducia che lega i cittadini alle istituzioni è stato in tal modo demolito .Al suo posto sono subentrati l’antipolitica e l’estraneità allo Stato. La corruzione diffusa ha alterato gravemente la redistribuzione del reddito, operata dalle decisioni politiche di spesa pubblica, da investimenti e servizi verso la collettività. La ricchezza è stata dirottata verso gruppi criminali presenti nell’apparato dello Stato e dell’imprenditoria pubblica e privata.
7 In una situazione cosi drammatica per l’Italia bisogna dare atto, come ha scritto Amedeo Piva in un suo recente editoriale, al Presidente del Consiglio Enrico Letta di essere un vero rivoluzionario perchè in questo momento pensa al bene dell’Italia… e non invece, secondo il solito costume italico, ad approfittare della posizione del momento per rafforzare la propria squadra.
Nel suo piano “Destinazione Italia”, un progetto per attirare gli investimenti esteri e favorire la competitività delle imprese italiane e del sistema Paese Enrico Letta ha mostrato una piena comprensione del problema. Nel piano non ci sono formule magiche che possano consentire di invertire in poco tempo il trend a noi sfavorevole che ormai dura da anni. Ma sono invece elencati i numerosi interventi che occorre attuare a tutti i livelli (politico, legislativo, amministrativo) per migliorare il business enviroment, e forse anche l’educational enviroment,del nostro paese.
Il piano prevede 50 misure che spaziano dal fisco alle autorizzazioni di concerto tra gli enti locali, alla giustizia civile, all’energia alle privatizzazioni, al turismo, ai visti ed altro ancora.
Dopotutto, come è stato scritto, se anche solo il 30% dei progetti elencati venisse realizzato nei prossimi 12 mesi, l’Italia forse sarebbe un luogo diverso per lavorare e investire.*****
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* Secondo recenti previsioni del FMI alla fine del 2013 il nostro paese sarà sorpassato in termini di PIL dalla Russia. Tra cinque anni l’Italia, continuando di questo passo, potrebbe scivolare all’undicesimo posto, scavalcata anche da Canada e India.
** L’Ocse in questi giorni ha di nuovo ritoccato al ribasso le stime sul nostro Pil passando da -1,5% a -1,8% per il 2013, e da +0,5% a +0,4% per il 2014. La percentuale dei senza lavoro in Italia salirà dal 10,6% del 2012 all’11,9% nel 2013, e poi fino al 12,5% nel 2014. È quindi molto probabile che aumenti il livello di disoccupazione giovanile già oggi spaventoso (40%), il precariato dei giovani (53% dei giovani lavoratori è precario) e la quota di NEET ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, non sono in formazione e non cercano più neppure un lavoro. Attualmene i NEET sono circa 2 milioni: il dato peggiore, nei paesi dell’Ocse, dopo il Messico.
*** Le multinazionali nel mondo sono attualmente 387, fatturano complessivamente 12.206 mld di euro e danno lavoro a quasi 32 milioni di persone. Le multinazionali italiane sono il fanalino di coda: 16 nel 2012 una in meno rispetto al 2011. Sono perdenti nel confronto con Germania, Francia e Regno Unito (minore redditività, minore solidità finanziaria, minore produttività, minori investimenti in R&D e minore capacità di profitto). Il contributo al fatturato aggregato europeo delle multinazionali con sede in Italia è pari al 7%, contro il 26% del Regno Unito, il 21% della Germania e il 15% della Francia.
**** Nella classifica di Reporter Sans Frontieres ci collochiamo al 57° posto per libertà di informazione.
***** Il piano Destinazione Italia dovrà mettere mano alla riorganizzazione dell’attuale sito di Invitalia (www.invitalia.it) che registra un profondo digital gap per contenuti e grafica rispetto ai siti, concepiti in logica web 2.0, (www.invest-in-france.org), (www.ukti.gov.uk), (www.idaireland.com), (www.investhk.gov.hk).