Diceva Emil Cioran, scrittore e filosofo rumeno, “Non si abita un paese, si abita una lingua”.
Quando pensiamo ad una lingua ci viene in mente l’italiano, l’inglese o il cinese… e siamo convinti che tutti coloro che parlano la stessa si capiscano tra loro o -per dirla con Cioran- abitino nella stessa casa.
In realtà a me sembra che -almeno in Italia- le cose non stiano esattamente così; è come se all’interno della stessa lingua convivessero due vocabolari diversi, due modalità diverse di descrivere le cose e di capirle. All’interno di un unico apparente contenitore, ciascuna delle due lingue utilizza il suo vocabolario, le sue logiche deduttive e -soprattutto- dà per scontato un suo “pacchetto” di fatti conosciuti e di cultura condivisa (cioè un medesimo “universo semantico”, direbbero gli abitanti di una delle due case).
Tra “abitanti” della stessa lingua ci si capisce: si ha lo stesso ritmo, si ride o ci si arrabbia per le stesse cose, si è sensibili allo stesso tipo di stimoli. Ovviamente si possono dire cose diverse, avere opinioni differenti, essere di destra o di sinistra, buoni o cattivi, generosi od egoisti, accapigliarsi, insultarsi, tradirsi, ma pur sempre capendosi, sempre all’interno dello stesso “vocabolario”.
Ascoltando i servizi televisivi in questi giorni sento parlare, con la sicurezza di chi dà per scontato di essere capito da tutti, del fatto -ad esempio- che “il decremento dell’indice di contagio in rapporto ai tamponi effettuati è rassicurante, il fattore Erre-con-Zero è inferiore ad uno: ora si aspettano misure di sostegno all’economia in recessione…”; è sicuramente detto in italiano, ma siamo sicuri che tutti abbiano potuto capire? Gli abitanti di entrambe le case hanno nel loro vocabolario, a portata di comprensione, termini come “decremento”, “fattore”, “recessione”? E quelli che abitano la lingua senza questi termini cosa penseranno? Di essere stupidi? Di non essere all’altezza? Che qualcuno che gli vuol nascondere la verità? Che non hanno il diritto di sapere?
Non è questione di usare parole più o meno difficili, tecniche o appropriate: il vero problema è la capacità di dare risposte alle domande che si pongono le persone che abitano in entrambe le case e che -raffinatezza a parte- sono sostanzialmente le stesse. Cosa è successo? Perché? E’ una buona o una cattiva notizia? C’è da avere paura? C’è soluzione? Posso fare qualcosa?
Se la lingua usata è troppo difficile, suppone troppe abilità e -tra queste- la capacità di dedurre autonomamente le risposte dalle informazioni, ci saranno molte persone che -pur parlando lo stesso italiano- resteranno deluse, senza risposta alle domande che ponevano. Bisogna fare uno sforzo in più, bisogna essere capaci di usare entrambe le lingue, di parlare ad entrambe le Italie! Non basta una sequenza di informazioni corrette, bisogna essere capaci di connetterle alle domande. Se questo sforzo non si fa, se si danno le informazioni senza dare le risposte, ci sarà sicuramente qualcun altro che darà le risposte senza le informazioni. Ci sarà chi andrà a raccontare all’altra Italia -prescindendo da qualunque dato informativo- che ci stanno nascondendo la cura col plasma, che bisogna avere paura degli immigrati, che i cinesi hanno progettato il Covid per mettere in ginocchio la nostra economia; lo dirà con termini semplicissimi e in perfetta sintonia con le attese più gratificanti. Darà risposte già pronte così comprensibili e dirette che sarà facilissimo -lo abbiamo già visto- trasformarle in voti.
Le lingue e le Italie sono due ed entrambe cercano risposte. Meglio non confidare nei traduttori automatici o lasciare che qualche falsario le venda sottocosto.