La mia esperienza Covid si è conclusa bene. Sono tornato a casa dopo trentadue giorni di ospedale e faccio ora parte di quel milione di italiani che ne è uscito vivo e può raccontarlo. Sono grato a tutte le persone dello Spallanzani che mi hanno curato con professionalità e attenzione e a tutti gli amici che mi hanno fatto sentire parte di una rete più grande e più affettuosa di quanto immaginassi. La malattia mi ha lasciato qualche strascico da curare e qualche cautela da osservare, ma non è proprio il caso di lamentarsi: al contrario essere qui e poter riprendere relazioni e attività mi sembra uno straordinario privilegio, una ragione in più per non sprecare il tempo prezioso di cui disponiamo.
Ci avviciniamo al Natale e i media ne parlano come di un appuntamento stagionale che quest’anno “sarà diverso”, che occorre reinventare per “salvarlo” -come si fa con la neve artificiale quando non ha nevicato sulle piste-, che occorre “difendere” come un diritto perché “ce lo stanno rubando” ed altre profonde riflessioni del genere. Nulla di nuovo, si tratta in fondo della solita retorica natalizia ravvivata quest’anno dall’appassionante thriller alimentare del cenone (massimo in sei? forse in otto? con la finestra aperta?), da quello teologico della messa anticipata di un paio d’ore (rispetto al meridiano di Betlemme?) e da quello geriatrico del nonno (meglio invitarlo perché potrebbe essere l’ultimo o non invitarlo per evitare che lo sia?).
Insomma nulla di particolarmente appassionante. Come sempre la significatività di una celebrazione dipende dalla sensibilità e dalle convinzioni di chi la celebra e ha poco o nulla a che vedere con le forme esterne che possono variare con le circostanze. La pandemia è una di queste circostanze, ma ci sono stati (e ci sono) natali celebrati in guerra, dopo un terremoto, durante una migrazione dolorosa e pericolosa, in prigionìa… senza che il loro significato e la loro profondità ne venissero minimamente scalfiti, anzi -per contrasto- finivano per brillare con maggiore forza ed efficacia.
Non è la “poesia” del Natale che ci serve, non è quella che dobbiamo salvare, sono piuttosto le sue “radici”. Il Natale ci serve per ricordare: la prima radice di ogni festa ciclica sia in chiave religiosa, sia in chiave laica. Per i cristiani il ricordo di un evento che traccia il senso della storia dell’uomo e dell’umanità, per i non credenti il ricordo dei valori a fondamento delle relazioni oltre la cronaca e le circostanze. Per entrambi un ricordo che non celebra solo il passato, ma trae forza dal passato per proiettarsi nel futuro. Da qui la seconda radice del Natale: ricordare ci serve per sperare, per continuare a credere che si può ricominciare, ripartire, dare continuità ai progetti, creare spazi per chi viene dopo di noi.
Non deve essere la pandemia a caratterizzare il Natale, ma il Natale a ridimensionare la pandemìa, a ricordarci che questa è solo una stagione, un inverno un po’ più difficile di altri, ma solo un inverno. Io scommetto sulla primavera.