Il governatore della Banca d’Italia -Ignazio Visco- ha detto la scorsa settimana che il nostro paese è alla vigilia di una forte ripresa economica. Tutti speriamo che abbia ragione, anche perché la sua affermazione si fonda su dati statistici solidi ed è confermata dalle previsioni degli osservatori economici (PIL +4,7% nel 2021 e +4.4% nel 2022).
Siamo contenti e speriamo che -conseguentemente- anche i posti di lavoro aumenteranno e finalmente i nostri figli e nipoti avranno maggiori opportunità di occupazione. E’ evidente che, se questa ripresa ci sarà, qualcuno la dovrà pur sostenere, mettere in pratica, lavorarci: serviranno competenze, idee, specializzazioni, cervelli e… braccia!. Quando pensiamo ai posti di lavoro -a differenza dei nostri nonni- pensiamo prevalentemente ad uffici, meeting, computer… come se i “vecchi” lavori manuali quasi non esistessero più, come se potessimo ormai fare a meno delle braccia che guidano i furgoni, caricano e scaricano i camion, raccolgono i pomodori, accudiscono gli anziani, puliscono le cucine dei ristoranti e degli ospedali. Quando parliamo di posti di lavoro non è sufficiente sapere solo se il loro numero assoluto cresce o diminuisce, dobbiamo chiederci -più precisamente- quali posti di lavoro crescono o diminuiscono, quali professionalità servono e serviranno. Sono quelle che i nostri figli e nipoti vorranno e potranno occupare?
Gianpiero Dalla Zuanna, demografo dell’università di Padova, ha approfondito questo problema chiedendosi se il capitale umano di cui l’Italia dispone sarà in grado di sostenere questa forte ripresa che tutti attendiamo: “Dal punto di vista strettamente demografico la risposta è negativa. Nei prossimi dieci anni, ogni anno compiranno 65 anni 840mila italiani, mentre ne compiranno 20 solo 570mila; numericamente il saldo negativo annuo sarà di meno 270mila lavoratori, ma in realtà la carenza di lavoratori manuali sarà più drammatica: tra i lavoratori con licenza media ed elementare lo scarto sarà di meno 350mila lavoratori.” . Non è una novità che i nostri giovani -al termine degli studi- si aspettano legittimamente qualcosa di diverso dai lavori manuali, ma nei numeri il problema si acuirà sempre di più e nessuno convincerà i nuovi diplomati e laureati italiani a fare quei lavori che le generazioni che vanno in pensione lasciano vacanti. Non ha molto senso dunque parlare di disoccupazione solo in termini quantitativi, dovremmo farlo in termini qualitativi identificando quale tipo di occupazione, richiesta dal mercato, resterà senza risposta.
“Già oggi nell’Italia del Centro Nord –continua l’analisi di Dalla Zuanna– il 50% dei lavori manuali di bassa qualifica, in tutti i settori, sono svolti da lavoratori stranieri ed anche nel Sud la percentuale si attesta al 20% ed è in crescita. Sbaglieremmo a pensare che nei prossimi anni l’Italia non abbia bisogno di lavoratori manuali. Ed è difficile pensare che questi lavori manuali vengano presi in carico dai giovani italiani”. Eppure -malgrado questa oggettiva situazione- non riusciamo a parlare di immigrazione senza che il discorso scivoli immediatamente sul piano etico, politico, comunicativo per poi arenarsi sul contrapposto tifo da bar. E se provassimo -per una volta- ad affrontarlo laicamente sul piano pragmatico e occupazionale provando a regolarlo legislativamente con realismo? “In molti campi dobbiamo capire che serve manodopera che viene dall’immigrazione –ha sostenuto giovedì E.Letta a “Porta a Porta” parlando di flussi migratori – i giovani italiani sono pochissimi, il nostro sistema imprenditoriale ha bisogno di manodopera: dobbiamo concepire il nostro futuro con una maggiore capacità di accoglienza e integrazione”.
E’ sicuro che ci serviranno braccia per realizzare il Recovery Plan ed è altrettanto sicuro che in Italia non le abbiamo e in futuro ne avremo ancora meno: dobbiamo solo decidere se continuare a farle entrare clandestinamente affidandole a caporali senza scrupoli o gestire i flussi con la testa, i numeri e leggi adeguate, senza impantanarci nelle solite chiacchiere del bar dello sport.