Ci abbiamo messo secoli a ridurre progressivamente i rischi che corriamo vivendo: restare senza cibo, morire di freddo, non sapere come curarci, farci male mentre lavoriamo. Abbiamo trovato il modo di prevenire le infezioni, proteggerci dal clima ostile, attutire le cadute. Negli ultimi decenni, questa riduzione del rischio ha avuto una prodigiosa accelerazione, arrivando a debellare definitivamente alcune malattie, a renderne curabili altre, a ridurre i disagi di molte disabilità e a contenere sia la probabilità che avvengano incidenti, sia il danno che producono.

Oggi i rischi che corriamo sono infinitamente più bassi di quando guidavamo auto senza cinture e seggiolini; di quando i farmaci e i vaccini non dovevano superare rigorosi controlli; di quando le gru nei cantieri e le presse nelle fabbriche non avevano dispositivi automatici di blocco… eppure -benché viviamo infinitamente più sicuri- ci percepiamo paradossalmente più insicuri ed ogni volta che si verifica un imprevisto o un incidente non riusciamo ad accettarlo, siamo furiosi e sconvolti: ci sentiamo traditi. Non ci interessa quanto quell’evento sia statisticamente raro o abbia cause imprevedibili, se la sua eventualità sia la metà o un decimo dell’anno precedente: se pure fosse l’unico ci sentiremmo comunque traditi, perché ci siamo ormai convinti che il nostro controllo sugli eventi debba essere totale e riteniamo l’assenza di rischio un nostro “diritto” assoluto. In realtà il rischio zero non esiste, quello che possiamo (e dobbiamo) fare è lavorare alla sua progressiva riduzione consapevoli però che non potremo mai annullarlo del tutto, perché non è vero che abbiamo il controllo totale di tutte le variabili.

 Ma non basta, siamo così convinti che non correre rischi sia un nostro diritto che pretendiamo di estenderlo anche alle altre decisioni che siamo chiamati a prendere: accettare un lavoro, fare un viaggio, sposarci, avere figli, vaccinarci, intraprendere un’attività, iniziare una terapia. Dimentichiamo -o fingiamo di dimenticare- che ogni decisione è figlia di una comparazione, i piatti della bilancia sono sempre due: è giusto porre attenzione ai rischi che corriamo nel “fare”, ma dobbiamo la medesima attenzione ai rischi che corriamo nel “non fare”. La decisione scaturisce dunque sempre dal confronto fra i due piatti e la possibilità di eludere la scelta è una finzione della mente.

E’ urgente recuperare, a livello personale e sociale, la nostra capacità di accettare l’incertezza come condizione naturale del decidere, se non vogliamo paralizzarci in attesa della sicurezza assoluta, allevare criceti invece che figli (chi può negare che presentino meno rischi e meno responsabilità?), coltivare l’inerzia come una virtù o -peggio ancora- annegare nella convinzione ossessiva di subire un torto ogni volta che la vita non sarà perfetta come la fiaba che ci eravamo raccontati.

Due cose danno la misura di quanto siamo veramente adulti: la capacità di essere responsabili e quella di saper correre rischi. Due capacità connesse tra loro da sempre celebrate come segno di maturità e coraggio che ora rischiano di essere declassate a tratti di imprudenza o incoscienza. Non esiste scelta senza responsabilità e non esiste decisione senza rischio, chi ci vuole convincere del contrario è un venditore di pentole (o di polizze). Le cose più belle e importanti della vita le facciamo quando accettiamo la responsabilità e il rischio, il resto è volume.