Ogni cultura immagina le culture diverse da sé utilizzando (inevitabilmente) le proprie categorie e tende quindi, anche per scarsa conoscenza, a farsene un’idea stereotipata e semplificata, spesso lontana dalla realtà. Lo stesso meccanismo funziona anche per le religioni: ciascuna si fa un’idea delle altre diverse da sé tendenzialmente stereotipata e semplificata, un’idea che spesso coglie con maggiore evidenza gli aspetti che le differenziano piuttosto che le analogie che le accomunano.
I cristiani -soprattutto quelli culturalmente “occidentali”- tendono, ad esempio, ad immaginare l’Islam come una religione arcaica, prevalentemente rituale, poco disposta al cambiamento e al dialogo con l’evoluzione della società e della scienza e -per questi aspetti- la considerano lontana e profondamente diversa dalla propria.
Benché queste due religioni siano oggettivamente molto diverse ed abbiano avuto evoluzioni storiche divergenti e spesso conflittuali, ho provato ad andare alle radici dei loro “precetti fondamentali” per meglio cogliere differenze e analogie.
I “cinque pilastri dell’Islam” indicano gli obblighi fondamentali di ogni credente musulmano: la testimonianza di fede, la preghiera quotidiana, l’elemosina, il digiuno nel mese di Ramadan e (per chi può) il pellegrinaggio alla Mecca una volta nella vita.
I “comandamenti” fondamentali per i cristiani sono questi due: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» e «Amerai il prossimo tuo come te stesso.» A parte la differenza nella formulazione -più rituale quella islamica, più interiore quella cristiana- la sostanza dei precetti non è molto dissimile: l’obbligo della fede verso Dio affiancato all’obbligo di farsi carico delle necessità del prossimo, la “caritas” per i cristiani e la “elemosina” per gli islamici.
Non mi sembra una intersezione di poco conto.
Negli ultimi decenni il cristianesimo ha rifocalizzato la centralità della “caritas”, facendone oggetto di insegnamento teologico e di attenzione organizzativa: ogni diocesi ha la sua “Caritas” che si occupa di concretizzare l’aiuto ai più bisognosi nel suo territorio di appartenenza. Non un accessorio accattivante, dunque, ma un pilastro costitutivo della propria appartenenza religiosa.
Dal prossimo settembre anche la diocesi di Roma, dopo molte altre, ha scelto di affidare la direzione della sua Caritas ad un laico, sposato con due figlie e due nipotini. E’ un diacono permanente e si occupa, nel suo quartiere, delle persone povere e delle famiglie in difficoltà. Il suo vicedirettore sarà invece un prete. Trovo questa scelta significativa anche sul versante della declericalizzazione di quei servizi che non c’è motivo per cui debbano essere assicurati da sacerdoti, superando così quella persistente accezione di “casta” che non favorisce una maggiore partecipazione dei laici.
La “caritas”, nelle sue innumerevoli declinazioni di servizio ai più bisognosi, è dunque una delle aree “comuni” al Cristianesimo e all’Islam e ritengo che per costruire una relazione non conflittuale, basata sul reciproco rispetto, sarebbe più efficace partire da quello che unisce che da quello che divide, non a caso una delle più felici intuizioni di Giovanni XXIII. Per fortuna siamo lontani da quando si cercava reciprocamente di dimostrare la bontà delle proprie ragioni –religiose e non- massacrandosi nella battaglia di Lepanto, ma non spararsi addosso l’un l’altro non è più sufficiente: molto meglio onorare fino in fondo ognuno i suoi comandamenti, soprattutto quando dicono la stessa cosa.