La mattina del 2 dicembre 1973 gli italiani scoprirono la parola “austerity”: non si poteva più utilizzare la macchina nei giorni festivi, non si potevano superare i cento chilometri orari e ristoranti e cinema chiudevano alle undici. In breve: i paesi produttori di petrolio quadruplicarono il prezzo del greggio e il mondo occidentale scoprì di essere sotto ricatto e di non avere un piano B. Si cominciò allora a parlare di fonti energetiche alternative a quelle fossili (petrolio, carbone, gas naturale) per ridurre il potere di ricatto dei paesi produttori.
Sono passati cinquant’anni e siamo ancora qui a parlarne, spaventati questa volta più dal riscaldamento globale che dalla paura del ricatto.
I combustibili fossili infatti, oltre a non essere rinnovabili, riscaldano la terra più velocemente di quanto non si supponesse, visto che il loro consumo è aumentato esponenzialmente per rispondere alla crescente domanda di energia. Eppure, dopo cinquant’anni, malgrado la produzione di energia prodotta con le fonti rinnovabili -sole, vento, acqua- sia enormemente aumentata in valore assoluto, la sua incidenza percentuale sul fabbisogno è rimasta sostanzialmente uguale al 1973: solo il 13% contro l’87% prodotta bruciando le fonti fossili.
Appare ormai inevitabile la necessità di ridurre le emissioni dei combustibili fossili, ma non abbiamo il coraggio di dire che per farlo davvero l’unico vero intervento efficace sarebbe ridurre drasticamente il consumo di energia. Quella che chiamiamo elegantemente “transizione ecologica”, per quanto lodevole è doverosa, non ci permetterà mai di disporre della stessa quantità di energia che utilizziamo oggi. Certamente dobbiamo impegnarci a vivere in modo “sostenibile”, cioè senza produrre (troppo) biossido di carbonio, senza riscaldare (troppo) il pianeta, senza sporcare (troppo) mari, fiumi e laghi, ma non illudiamoci che sia possibile farlo mantenendo inalterata la disponibilità di energia che noi sette miliardi consumiamo attualmente: dietro valori generici (poco, troppo, sostenibile, insostenibile) ci sono numeri assai poco generici. È ragionevole credere che sarà possibile ribaltare le percentuali dell’energia prodotta dalle fossili (87%) e dalle rinnovabili (13%) che non siamo riusciti a scalfire in cinquant’anni di ricerca e di progresso? O che sarà possibile produrre enormi quantità di energia con un nucleare “sicuro” (che ancora non c’è) superando gli incubi di Chernobyl e di Fukushima? E se questo, come abbiamo paura di dire, non fosse possibile, saremmo disposti a rinunciare a una parte dell’energia che consumiamo? Quanta parte? Quale parte? Per farla breve: siamo davvero convinti che la riduzione delle emissioni (o transizione ecologica) sia possibile senza rinunciare a niente? Che sia come cambiare d’abito e scegliere il verde invece del grigio?
Dovremmo aver imparato che i cambiamenti importanti, etici e necessari, non basta motivarli e applaudirli, bisogna anche pagarli. Bisogna sapere quali rinunce richiedono, essere disposti ad accettarle e ripartirle con equità fra noi sette miliardi. Siamo tutti sinceramente convinti che sia cosa buona e giusta lasciare ai nostri figli un mondo pulito e sostenibile, ma se per farlo fosse necessario razionare la benzina, l’acqua calda, la luce, il gas e i gli scaffali dei supermercati fossero semivuoti il nostro entusiasmo etico sarebbe lo stesso? Vogliamo davvero trovare una soluzione o puntiamo sulla magia di una transizione indolore?