La parola nostalgia ne evoca inevitabilmente altre tre: malinconia, vecchiaia e inutilità; non è di questa nostalgia che vorrei parlare. Niente a che vedere -dunque- con il rimpianto e il sentimentalismo. La cosa di cui avverto la mancanza e mi fa soffrire (nell’etimo di nostalgia c’è comunque “άλγος”=“dolore”) non è un altro tempo, piuttosto un altro metodo.

Un metodo in cui le divergenze, i dibattiti, le spaccature interne ad un partito si affrontano al suo interno: senza sconti, senza esclusione di colpi, ma all’interno di un orizzonte condiviso di valori e di idee che non siano costantemente da ridefinire, proprietà esclusiva di qualcuno, esportabili o vendibili. Un metodo in cui le correnti possono incrinare la superficie, non mettere in discussione l’identità politica di chi discute. Un metodo in cui l’obiettivo delle discussioni non è mai né una fittizia unanimità, né una frattura insanabile, ma il risultato di un faticoso processo di mediazione nel quale ciascuno sia costretto a lasciare sul tavolo qualcosa in cambio di qualcos’altro.

Quando in un partito a fare da collante non erano solo l’ideologia e i valori, ma anche -più pragmaticamente- i voti di chi lo sosteneva, nessuno si poteva illudere di portarsi via metà dei consensi elettorali se non accettava una mediazione; per questo la stabilità era maggiore, l’elettorato meno liquido e volatile e l’identità elettorale non si identificava con il nome e il volto del leader di turno. Mi appassionano le discussioni sui contenuti, non sui dettagli; sul vino, non sull’etichetta; sul motore, non sul colore della carrozzeria.

Il metodo di cui ho nostalgia è praticabile però solo se si riesce a stabilizzare (almeno parzialmente) il quadro politico, riducendo il nomadismo elettorale al quale non corrisponde più un cambio di orientamento, ma semplicemente il girellare tra un banco e l’altro della fiera fermandosi di volta in volta laddove il volto, il testimonial o lo slogan dell’imbonitore di turno sembra intonarsi alla stagione. Ripete spesso un mio amico che abbiamo la politica che ci meritiamo perché il problema dell’Italia non sono gli eletti, ma gli elettori: forse non ha tutti i torti. Ma come formare gli elettori e soprattutto come formare gli elettori del futuro? Ovviamente non “formarli” nel senso di orientarli verso un’ideologia piuttosto che un’altra, ma nel senso di formarli alla politica, a capire quanto sia importante e quante conseguenze abbia votare in un modo o in un altro o -forse la cosa più grave- non votare affatto. Formarli ad imparare dalle scelte fatte e dall’esperienza, formarli ad utilizzare indicatori realistici per valutare il lavoro dei politici, a non essere vittime ingenue della propaganda che vende sogni senza gambe.

Non ho una risposta già pronta al quesito su “come formarli”, mi inquieta però il fatto che nessuno sembra preoccuparsene più di tanto; pensiamoci e -quando ci risentiremo a settembre- proveremo a mettere insieme le idee e -lo spero- a strutturare una proposta. Buona estate.