ASCOLTA L’ARTICOLO QUI

La manifestazione nazionale promossa da Europe for Peace che si è svolta a Roma sabato scorso ha riportato la nostra attenzione sulla guerra in Ucraina riproponendo i laceranti interrogativi che quel conflitto ci costringe ad affrontare e che vanno ben oltre le conseguenze economiche che ha (e avrà) sulla nostra quotidianità.

Il taglio della manifestazione e gli interventi più rilevanti hanno evidenziato con forza la convinzione che la ricerca di una pace “giusta” e duratura non può prescindere dal merito del conflitto (come nel mito affascinante del “senza se e senza ma”), ma nel farsene carico non può nemmeno rimanerne prigioniera. In sostanza è ragionevole e giusto distinguere gli aggressori dagli aggrediti e aiutare i secondi a difendersi (anche con le armi), ma sarebbe ingenuo pensare che questo “riequilibrare” le forze in campo esaurisca le nostre possibilità di favorire un superamento del conflitto e produca un esito di pace. Se ci limitassimo a questo, per poi attendere -come  spettatori di un conflitto altrui-  che la pace prima o poi si ristabilisca spontaneamente, aggiungeremmo all’ingenuità una buona dose di ipocrisia. 

Andrea Riccardi ha opportunamente notato che i conflitti armati foraggiati tendono spontaneamente ad “eternizzarsi”, come nel caso della Siria, se non c’è contemporaneamente lo sforzo di “ristabilire l’orizzonte della pace”, cercando senza stancarsi il “come”, sollecitando chi può avere maggiore influenza sulle parti in conflitto e riuscendo così a costruire spazi diplomatici efficaci, formali e informali. Riccardi ha precisato senza ambiguità: “la legittima difesa e la resistenza dell’Ucraina vanno appoggiate anche con l’invio di armi ma contemporaneamente vanno cercate altre strade”… ci troviamo in una situazione di “passività con un nanismo diplomatico”.

Di fronte a questa diplomazia atrofizzata, incapace di funzionare in caso di conflitto (proprio quando serve di più!), mi sono interrogato sul perché di questa atrofia: di cosa si nutre la diplomazia? Di cosa si nutre il desiderio di pace? Dove affondano le radici del dialogo? Qual è il suo humus? Cosa è venuto a mancare perché la comunità internazionale -a tutti i livelli- si scopra ora così impotente? 

Non è stato difficile trovare indizi eloquenti: siamo immersi in una cultura che esalta la “sovranità” come una virtù, la priorità del proprio interesse come saggezza e il campanilismo a tutti i livelli come sintomo identitario; abbiamo abbandonato al suo destino la cooperazione internazionale riducendola sempre più spesso alla ciliegina sulla torta di accordi commerciali o ad un accessorio buonista per adolescenti sognatori; abbiamo irriso la solidarietà come fosse una malattia da cui guarire per poter diventare adulti; abbiamo criminalizzato il soccorso ai migranti e agli emarginati; abbiamo ridotto l’empatia ad un sentimento di cui vergognarsi… e poi ci stupiamo che la diplomazia si sia atrofizzata? La solidarietà, la cooperazione, il dovere di soccorrere, l’empatia e la reciprocità sono le radici positive, l’humus valoriale condiviso sul quale la diplomazia può costruire il suo percorso di pace. Se lasciamo seccare queste radici, o addirittura le recidiamo, la diplomazia perde ogni forza, non ha più “valori alti” da invocare e da contrapporre agli interessi di parte e ai contendenti in conflitto: diventa muta e sterile.  

La pace non nasce nelle manifestazioni, né cade dal cielo: va realisticamente preparata, radicata con perseveranza, sperata con convinzione e perseguita politicamente. Ma -soprattutto- bisogna crederci.