Negli ultimi anni, a seguito dell’emergenza pandemica, si è affermata la necessità di riorganizzare il sistema sanitario nazionale per affrontare le criticità di un sistema in grande difficoltà nel rispondere alle esigenze e ai bisogni di salute emergenti nella popolazione. Criticità, già presenti da prima della pandemia, ma aggravate da un’emergenza che ha travolto il sistema sanitario e i servizi socio-sanitari.
Come possiamo già leggere nel Piano Nazionale della Cronicità del 2016, “si stima che circa il 70-80% delle risorse sanitarie a livello mondiale sia oggi speso per la gestione delle malattie croniche; il dato diviene ancora più preoccupante alla luce delle più recenti proiezioni epidemiologiche, secondo cui nel 2020 esse rappresenteranno l’80% di tutte le patologie nel mondo. Nella regione europea dell’OMS, malattie come lo scompenso cardiaco, l’insufficienza respiratoria, i disturbi del sonno, il diabete, l’obesità, la depressione, la demenza, l’ipertensione, colpiscono l’80% delle persone oltre i 65 anni e spesso si verificano contemporaneamente nello stesso individuo. Ed entro il 2060 si prevede che il numero di Europei con età superiore a 65 anni aumenti da 88 a 152 milioni, con una popolazione anziana doppia di quella sotto i 15 anni.“ (https://www.salute.gov.it/imgs/ C_17_pubblicazioni_2584_allegato.pdf).
La cronicità richiede interventi multidisciplinari e una presa in carico complessa, in cui per fornire risposte sanitarie appropriate, è fondamentale la collaborazione tra diverse figure professionali e diverse strutture che, se agiscono in modo frammentato, possono portare a soluzioni contrastanti, alimentando i problemi di salute stessi e la spesa a carico della collettività. Ovviamente, in questa fascia di popolazione, ci sono le persone con disabilità. Nel nostro Paese, nel 2019, le persone con disabilità – ovvero che soffrono a causa di problemi di salute, di gravi limitazioni che impediscono loro di svolgere attività abituali – sono 3 milioni e 150 mila (il 5,2% della popolazione).
Gli anziani sono i più colpiti: quasi 1 milione e mezzo di ultrasettantacinquenni (il 22% della popolazione in quella fascia di età) si trovano in condizione di disabilità e 1 milione di essi sono donne. Per tali motivi, negli ultimi anni, si sta concretizzando il passaggio dal termine “cura” a quello del “prendersi cura” della persona, considerando sempre il suo contesto di vita complessivo, le sue necessità, focalizzandosi dunque sulla presa in carico dell’individuo e sui suoi bisogni, nonché della famiglie che lo assiste. Il Ministero della Salute, assieme al Centro Nazionale per la Prevenzione e Controllo delle Malattie (CCM), ha promosso e finanziato progetti inerenti tali problematiche.
Tuttavia, se pensiamo che attualmente, in Italia, la spesa del servizio sanitario nazionale per la disabilità è pari solo a circa 3,15 miliardi, vediamo che, di fatto, questo target assorbe meno del 3% delle risorse assegnate alle regioni per il finanziamento dei Lea. In mancanza di una assistenza sanitaria territoriale forte, la risposta residenziale diviene necessaria, allontanando le persone con bisogni di salute complessi dalle loro case, spesso in modo doloroso per sé e per le famiglie. In assenza di una assistenza territoriale forte, le cure divengono incompatibili con i progetti di vita delle persone in carico. Ad aggravare questa situazione, la pandemia, che in queste strutture residenziali, abitate da centinaia di persone fragili, ha imperversato.
Solo l’integrazione socio-sanitaria può rispondere in modo adeguato in queste situazioni. Per tali ragioni, il PNRR prevede la riforma dell’assistenza sanitaria territoriale finalizzata alla creazione e al potenziamento di strutture di prossimità, attraverso un documento, il “DM71”, che delinea la riforma dell’assistenza sanitaria territoriale ispirata dal nuovo Patto per la Salute 2019-2024. Per la prima volta vengono definiti standard uguali per ogni regione, con l’Agenas ha vigilare, con relazioni semestrali sull’adeguamento dei territori a tali standard. Il perno del sistema sarà il Distretto Sanitario, al cui interno rivestiranno un ruolo fondamentale la Casa della Comunità (CdC), gli Studi dei medici di famiglia, gli Ospedali di Comunità e le Centrali Operative Territoriali, mentre le Farmacie diventeranno veri e propri Presidi Sanitari di prossimità e saranno un elemento fondamentale ed integrante del Servizio Sanitario Nazionale.
Gli standard per il territorio
Per fare dei veri servizi di prossimità, le scale di grandezza e i numeri, sono fondamentali. Vediamoli.
La riforma prevede un Distretto ogni 100.000 abitanti, una Casa della Comunità “hub”, ogni 40.000/50.000 abitanti; almeno un infermiere di Famiglia e Comunità ogni 3.000 abitanti (L’Infermiere di Famiglia e Comunità è la figura professionale di riferimento che assicura l’assistenza infermieristica in collaborazione con tutti i professionisti socio sanitari della comunità, ponendo al centro la persona), una Centrale Operativa Territoriale (COT) ogni 100.000 abitanti (la Centrale Operativa Territoriale svolge una funzione di coordinamento e raccordo tra servizi e professionisti coinvolti nei diversi setting assistenziali), un Ospedale di Comunità (dotato di 20 posti letto ogni 50.000 – 100.000 abitanti).
Case della Comunità e Ospedali di Comunità: di cosa si occupano?
La Casa della Comunità, sia nell’accezione “hub” che in quella “spoke”, costituisce l’accesso unitario fisico per la comunità di riferimento ai servizi di assistenza sociosanitaria, dove trovare assistenza h24 ogni giorno della settimana. Il modello Hub & Spoke (letteralmente “mozzo e raggi”) è un modello organizzativo, preso in prestito dall’aviazione civile americana, che parte dal presupposto per cui determinate condizioni e malattie complesse necessitano di competenze specialistiche e costose. Non possono quindi essere assicurate in modo diffuso e capillare su tutto il territorio. (https://nursetimes.org/hub-spoke-il-modello-e-gia-realta-in-italia/41882). L’organizzazione prevede la concentrazione della casistica più complessa in un limitato numero di sedi Hub (centri specialistici di eccellenza), connessi con centri periferici Spoke, dove vengono inviate le persone che hanno superato una certa soglia di complessità. L’obiettivo è attuare un miglioramento dei servizi territoriali e una riqualificazione dei piccoli ospedali per farli tornare a svolgere un ruolo rilevante nella rete assistenziale.
Gli Ospedali di comunità, diversamente, sono strutture intermedie tra l’assistenza domiciliare e l’ospedale, in sostanza un ponte tra i servizi territoriali e l’ospedale per tutte quelle persone che non hanno necessità di essere ricoverate in reparti specialistici, ma necessitano di un’assistenza sanitaria che non potrebbero ricevere a domicilio (https://salute.regione.emilia-romagna.it/cure-primarie/ospedali-di-comunita#:~: text=Gli%20Ospedali%20di%20comunità%20sono%20strutture%20intermedie%20tra,un’assistenz a%20sanitaria%20che%20non%20potrebbero%20ricevere%20a%20domicilio.).
Gli Ospedali di Comunità, con un forte assistenza infermieristica, saranno decisivi per la presa in carico dei pazienti nelle fasi post ricovero ospedaliero o in tutti quei casi dove c’è bisogno di una particolare assistenza vicino al domicilio del paziente. “Nel nuovo sistema un forte ruolo rivestiranno gli infermieri di famiglia che saranno impiegati in molte delle nuove strutture definite dal decreto. A coordinare i vari servizi presenti nel Distretto vi saranno poi le Centrali operative territoriali. Vengono poi fissati gli standard per l’assistenza domiciliare e viene definito l’utilizzo dei servizi di Telemedicina.”
Infine, la riforma fa riferimento esplicito alla “valorizzazione della co-progettazione con gli utenti” e alla “valorizzazione della partecipazione di tutte le risorse della comunità nelle diverse forme e attraverso il coinvolgimento dei diversi attori locali (Aziende Sanitarie Locali, Comuni e loro Unioni, professionisti, pazienti e loro caregiver, associazioni/organizzazioni del Terzo Settore, ecc.).
I dubbi e gli interrogativi necessari
Come si può leggere, la riforma prevede una vera e propria rivoluzione e attuarla non sarà facile, perché vanno superate contraddizioni, difficoltà e la cronica mancanza di personale sanitario. Tuttavia, attraverso il coinvolgimento attivo dei territori, si può superare una posizione passiva della cittadinanza e superare queste difficoltà costruendo percorsi, processi, condivisi e partecipati, oltre una visione meramente assistenzialistica e una suddivisione noi/loro che reifica una divisione arbitraria tra i cittadini.
Per tali motivi, le consulte socio-sanitarie possono fare la differenza. E riportiamo alcune domande utili (riprese dal documento di Cittadinanza Attiva) per le realtà territoriali, che in questi anni, hanno continuato un lavoro di prossimità sempre più complesso, e cercano un aiuto, una sponda concreta, nella loro quotidianità, nelle istituzioni del territorio. Domande utili a orientare lo sguardo in modo concreto verso una reale applicazione di questa riforma: “Il […] numero [di queste strutture] sarà effettivamente congruo rispetto ai bisogni di salute della popolazione? Data l’atavica carenza di personale sanitario, ci saranno medici di famiglia, infermieri, specialisti, e altro personale a sufficienza perché tutto funzioni secondo le previsioni? E saranno adeguatamente preparati per il nuovo modello organizzativo territoriale? L’assistenza territoriale verrà davvero garantita senza diseguaglianze? E i cittadini: quanto ne sanno, cosa ne pensano e come possono partecipare attivamente a tutto questo processo di trasformazione?”