ASCOLTA L’ARTICOLO QUI
Carlo Nordio, quarant’anni da pubblico ministero, si è sempre espresso contro l’ergastolo e contro l’ergastolo ostativo definendolo “un’eresia contraria alla Costituzione; il «fine pena mai» non è compatibile con il nostro Stato di diritto.” (Cerasa, Le catene della destra, Rizzoli, 2022). E’ tuttavia comprensibile che ora -nella sua veste di ministro della Giustizia e nel quadro del dibattito in corso- si trovi a dover sottolineare in parlamento che “il 41-bis è una legge dello stato e costituisce un elemento normativo non trattabile” ed anche che i disordini di piazza sono “atti di intimidazione nei confronti dei quali lo stato deve avere la massima fermezza”.
Non ho alcuna intenzione di entrare qui nel merito del dibattito sulla vicenda di Alfredo Cospito né sui tecnicismi giuridici del 41-bis, mi interessa invece l’espressione “massima fermezza”, spesso utilizzata quando si vuole chiudere un ragionamento invece di approfondirlo, un po’ come succede con il sempreverde “senza se e senza ma”.
“Massima fermezza”, oltre ad essere una di quelle locuzioni inutilmente rafforzate (esiste forse una fermezza leggera o minima?) -come “severamente vietato” o “assolutamente necessario”- è un’affermazione eticamente impegnativa per chi la utilizza. A chi raccomanda o esige la massima fermezza è infatti legittimo richiedere nello stesso ambito altrettanta coerenza e rigidità. Sarebbe coerente un direttore che esigesse dai suoi collaboratori precisione e puntualità se nei loro confronti fosse costantemente approssimativo e ritardatario? Sarebbe credibile un insegnante che esigesse dai suoi alunni impegno e onestà e non preparasse le sue lezioni e non fosse equo nei suoi giudizi? Se qualcuno esige massima fermezza ne va della sua coerenza e della sua credibilità, anche se questo qualcuno è lo stato. Non mi riferisco alla coerenza in senso generale, che sarebbe impossibile valutare nel caso di strutture complesse, ma alla coerenza almeno all’interno dello stesso ambito rispetto al quale si esige fermezza.
Tornando al dibattito di questi giorni, così come la massima fermezza deve essere applicata nei confronti dei comportamenti criminali, allo stesso modo va applicata anche a difesa della possibilità che a un criminale sia riconosciuto un diritto [come quello di non doversi trovare al 41-bis]. Se ai parlamentari è concesso il diritto di visitare i detenuti a garanzia del rispetto delle regole di detenzione, anche questo diritto andrebbe difeso con massima fermezza senza dedurre che chi va a trovare un carcerato ne condivida necessariamente le idee o addirittura ne disconosca i reati.
Ritengo anch’io che una maggiore fermezza, da parte di tutti, migliorerebbe le garanzie della vita sociale, ma perché questo avvenga sono convinto che non sia sufficiente invocare le massime fermezze solo come argine esterno a difesa dei nostri diritti, ma dovremmo coerentemente -al nostro interno- esercitarle rispetto ai diritti degli altri e ai valori che riteniamo davvero importanti. Ogni diritto preteso è fondato su un impegno dovuto e ogni fermezza che invochiamo dagli altri ha sempre un contraltare in un’altra fermezza che, come persone e come istituzioni, spetta a noi garantire. “Massima” -ovviamente- sennò che fermezza è?