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Accarezzando l’invisibile” è il titolo della mostra che abbiamo inaugurato al Sant’Alessio in occasione della giornata nazionale del “braille”, che si celebra il 21 febbraio per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti delle persone non vedenti. Gli ospiti hanno avuto l’opportunità di apprezzare alcune opere dell’artista Enrica Capone, una serie di quadri materici e di soggetto astratto da poter liberamente toccare. Toccare non è come vedere, il tatto -a differenza della vista- è un senso meno immediato e più riflessivo: ha bisogno di tempo, esige un processo mentale di deduzione, analisi e ricostruzione per cogliere il significato dell’oggetto e il messaggio dell’opera. Questa esigenza di più tempo non è necessariamente un limite: ogni senso ha il suo modo di funzionare e spesso la maggiore velocità della vista induce a una maggiore superficialità, a credere che basti il colpo d’occhio per aver capito tutto.

La sindrome del colpo d’occhio ci sta contagiando velocemente e non è solo una questione di vista: ci basta un tweet, un titolo, uno spot, una foto, una battuta per convincerci di aver colto tutto il coglibile (il contesto, il senso, il perché, le possibili letture alternative…) e autorizzarci a reagire, tranciare giudizi, dedurne conseguenze.

E’ una sindrome brutta e pericolosa, privilegia il tempo di reazione sulla reazione stessa rendendola spesso sterile ed isterica.

Siamo davvero sicuri che il contesto, il senso e le possibili letture alternative siano dettagli di poco conto? Pensiamo davvero di poter esprimere giudizi sensati su temi che non conosciamo, vicende che non abbiamo approfondito, questioni complesse di cui abbiamo appreso spesso solo un dettaglio o una lettura di parte? E in mancanza di conoscenza, riflessione e approfondimenti contestuali, da cosa potranno dipendere le nostre reazioni se non da un pregiudizio ideologico, dall’andare a rimorchio di altri o solo dal fatto che confermano le convinzioni che già abbiamo? E’ proprio il “colpo d’occhio” la più astuta delle strategie per farsi un’opinione o non è invece il modo per amplificarne una di seconda mano?

Mi rendo conto di aver appena formulato quattro domande retoriche, ma se vogliamo guarire dalla sindrome -o almeno mitigarne le conseguenze- è prudente utilizzare gli antidoti di cui disponiamo: la verifica delle fonti, la lettura incrociata di opinioni diverse, il controllo della “pancia” (inibisce le sinapsi!), l’attenzione allo spessore del commento, alla superficialità del tema e -perché no?- all’antico “cui prodest?” (a chi giova?). Di grande aiuto anche il diffidare degli aggettivi trancianti e definitivi (inaccettabile, irricevibile, indiscutibile, non-negoziabile…) e delle locuzioni esagerate (vergogna! tradimento! schifoso! criminale!…), modalità che oltre ad essere figlie del colpo d’occhio, finiscono per esserne anche moltiplicatrici.

Da ultimo, faremmo bene a ricordare che non è proprio indispensabile dire la propria su tutto e su tutti in tempo reale; scriveva David Foster Wallace: “la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi.”

Enrica Capone, l’artista che ha esposto i suoi quadri tattili al Sant’Alessio, nel rispondere alla provocatoria domanda di una persona non vedente “cos’è che la vista toglie all’arte?” , ha ben spiegato: « un quadro ci piace o non ci piace per l’eco che genera in noi, ma se noi non “stacchiamo” la vista per capire meglio quest’eco, per passare dal quadro al “noi”, quel quadro non ci dirà nulla, non sarà servito a nulla…». Auguro a tutti di riuscire a ricalibrare la percezione dei “quadri” che vediamo, riuscendo a coglierne criticamente il senso e il peso e a reagire modificando proficuamente la realtà e la società. Se ci accontentiamo dei soli colpi d’occhio, il giro in pinacoteca sarà stato inutile.