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Ho recentemente ascoltato da un podcast un episodio “rivelativo” di una variabile che siamo spesso tentati di rimuovere: il direttore di una banca, avendo notato un insolito ordine di bonifico su un conto in Estonia, ha sospeso per precauzione il pagamento invitando la correntista in filiale per avere conferma della sua decisione prima di procedere. La signora ha spiegato che si trattava di un investimento che le avevano proposto per telefono e che -le avevano promesso- avrebbe fruttato il 300% in un solo anno. Le avevano anche fatto scaricare una App che mostrava graficamente la “miracolosa” progressione dell’investimento e lei si era convinta della sua bontà.
Il direttore le ha chiesto il nome della società proponente e gli è bastato un breve giro sul web per verificare che si trattava di una nota truffa finanziaria. Ha spiegato alla correntista e a suo marito il funzionamento della truffa e ha anche mostrato loro le pagine web che denunciavano e provavano l’imbroglio. Il direttore era certo di averli convinti e di aver così evitato loro un grave danno economico, tanto più che non si trattava di persone facoltose che investivano -consapevoli del rischio- una parte dei loro averi, ma di persone evidentemente sprovvedute e raggirate che mettevano in gioco i risparmi di una vita. Incredibilmente la decisione della coppia, di fronte a tutte le prove del raggiro, è stata: “Va bene, ma noi ci vogliamo credere”.
Si tratta certamente di un caso limite, ma l’affermazione “ci vogliamo credere” -commentava il giornalista* del podcast- rivela emblematicamente il rapporto che strutturiamo con il mondo intorno a noi: ci piace ritenerci informati e cerchiamo di esserlo in molti modi convinti che le informazioni ci servano per avere dati oggettivi, così da capire meglio come stanno davvero le cose e ci permettano di formulare un giudizio sugli eventi, ma spesso il meccanismo di formazione delle opinioni non è così lineare come crediamo e deve fare i conti con la variabile costituita dalle cose che -più o meno consapevolmente- “vogliamo credere”.
Il nostro rapporto con la realtà non è mai solo razionale, non sono mai soltanto i fatti a determinare le nostre opinioni. Chi ha una certa idea di economia, una certa opinione sulle migrazioni, una sua convinzione sui rapporti sociali magari basata su dati sbagliati, non cambierà quell’idea semplicemente se noi gli forniamo dati corretti perché quella persona probabilmente “ci vuole credere”: vuole pensarla quella cosa che pensa sull’immigrazione, sull’economia o sulla società.
Le opinioni (anche le nostre!) non sono mai solamente razionali perché dipendono da tanti elementi: il tipo di formazione che abbiamo ricevuto, il tipo di cultura che abbiamo strutturato, il lavoro che facciamo o che abbiamo fatto, le persone e gli ambienti che frequentiamo.
C’è chi è allenato a sottomettere le proprie convinzioni al vaglio delle nuove informazioni e dei nuovi fatti che apprende, c’è chi invece questo lavoro critico (che è poi “onestà intellettuale”) non ha nessuna voglia di farlo: è abituato a definire i fatti a partire dalle sue opinioni e non il contrario, e spesso neanche se ne accorge.
L’unico antidoto è… lo specchio!, la capacità cioè di guardarci negli occhi e confessare con sincerità -almeno a noi stessi- dove passa il confine tra ciò che crediamo davvero e ciò che vogliamo credere perché non ci va di ammettere di aver cambiato idea.
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*(Francesco Costa in “Morning”, podcast de Il Post)