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La scorsa settimana, in occasione del ventesimo anniversario dell’istituzione del garante territoriale dei diritti delle “persone private di libertà”, si è svolto in Campidoglio un convegno per fare il punto sulla condizione della gestione carceraria durante il quale il ministro della giustizia, Carlo Nordio, ha affermato: “Dal punto di vista normativo abbiamo un sistema che si è sedimentato in modo contraddittorio. Il nostro governo ha aumentato i reati e le pene contro alcuni reati odiosi, ma una certa percentuale di persone detenute è detenuta per reati minori e l’espiazione delle pene non dovrebbe essere affidata -nel loro caso- alle sbarre ma a misure alternative.”
Come non essere d’accordo?
Peccato che -pochi giorni dopo- il Consiglio dei Ministri abbia varato un pacchetto di disegni di legge, definito con poca originalità “pacchetto sicurezza”, di segno completamento opposto. Francesco Grignetti, su La Stampa, lo sintetizza così: “la logica, come prevedibile, è quella di “legge e ordine” che piace tanto alla premier: il filo comune è il pugno duro. Come descrivere diversamente, la detenzione di donne incinte o di quelle con bambini sotto un anno, pur se non in un carcere ordinario, ma negli istituti a custodia attenuata? Oggi è esplicitamente vietato e la pena viene «differita», cioè rinviata. Questa norma invece riapre le celle per le donne in gravidanza”. Va forse rammentato che di questi “istituti a custodia attenuata” ne esistono solo quattro in tutta Italia e che -anche se non detto esplicitamente- è evidente che questa norma è tarata sulle ragazze di origine rom spesso arrestate per furti in flagranza e che, per la gravidanza o perché mamme di bimbi piccoli, riescono ad evitare il carcere immediato.
Il “pacchetto” -oltre che per le donne incinte che borseggiano sugli autobus- prevede pene più aspre anche per chi occupa abitazioni abusivamente, per gli autori di truffe agli anziani e per chi attenta al “decoro delle stazioni di polizia”, cioè per i graffitari che ne imbrattino i muri, pena la reclusione da sei mesi a un anno e mezzo e della multa da 1.000 a 3.000 euro; nei casi di recidiva, la pena della reclusione passa da 6 mesi a 3 anni e della multa fino a 12.000 euro.
Al di là della facile ironia sullo scarto tra la gravità dei problemi e la miopia dei singoli provvedimenti, mi colpisce l’incoerenza del metodo: per eliminare le cause sociali che producono certi reati servono interventi complessi, economici (prima ancora che repressivi); ci vuole tempo e il rischio di fallire è alto… scegliendo invece la strada di inventare “nuovi reati” e di “inasprire le pene” il rischio di fallire è certo, ma in compenso il governo potrà dire che “finalmente” si sta facendo qualcosa contro l’occupazione delle case, gli scippi sulla metro e il decoro dei muri dei commissariati.
Il vero problema di questo metodo, prima ancora della valutazione etica delle norme, riguarda -molto concretamente- la sua efficacia. Inventare nuovi reati e inasprire le pene funziona? E’ la medicina giusta per evitare o ridurre questi reati? E’ ampiamente dimostrato che l’effetto deterrente di una norma non è proporzionale alla gravità della pena prevista, ma alla sua certezza: per scoraggiare le infrazioni stradali sono cento volte più efficaci la telecamera della ZTL o lo scatto dell’Autovelox che la paura di essere fermati e multati da una pattuglia della polizia! Limitarsi ad inasprire le pene è una medicina sbagliata e inefficace, un rimedio a costo zero e ad alto rendimento elettorale.
E se una medicina è sbagliata non basta aumentare la dose. Anzi.