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Martedì scorso il candidato di estrema destra e ultraliberista Javier Milei ha ampiamente vinto le elezioni presidenziali in Argentina. Mercoledì il leader radicale Geert Wilders è stato il più votato con il suo Partito per la Libertà, nelle elezioni parlamentari dei Paesi Bassi. Si potrebbe pensare ad una normale alternanza tra partiti di destra e partiti di sinistra se non fosse che questi due personaggi non sembrano propriamente politici “normali” e le loro proposte politiche vanno ben oltre il perimetro che siamo abituati a considerare accettabile. Qualche esempio? Tra le proposte politiche di Milei c’è la sostituzione della valuta argentina con il dollaro statunitense, l’abolizione della Banca centrale, l’accesso alle armi a tutti, la privatizzazione delle imprese pubbliche e la cancellazione dell’assistenza sociale diretta; in campagna elettorale ha definito Papa Francesco un “imbecille” e descritto la vendita di organi “un mercato in più”. Geert Wilders -in Olanda- è il politico europeo con il programma più radicale nei confronti di Islam e immigrazione: chiede di vietare tutte le moschee, chiudere completamente le frontiere ad ogni richiedente asilo o migrante e convocare un referendum per l’uscita dei Paesi Bassi dall’Unione Europea.
Non so se questi personaggi -nonostante la vittoria elettorale – riusciranno a formare un governo nei loro paesi, ma più che i singoli protagonisti ad allarmarmi è l’estensione -ormai planetaria- dei populismi e l’aggravarsi della loro radicalità.
Wilders ha commentato la sua vittoria affermando che “gli elettori hanno parlato e hanno detto di essere stufi”, evidenziando così una volta di più le radici di ogni populismo: esasperare il disagio fingendo di avere in tasca la soluzione di ogni problema, soffiare sulla rabbia utilizzandola come propellente e indicando di volta in volta un capro espiatorio verso cui incanalarla; tra questi “capri”, quello al quale gli elettori sembrano essere più sensibili è certamente il rifiuto dei migranti, il tratto comune a tutte queste forze.
“Il populismo è vivo e lotta in mezzo a noi” -scrive Antonio Polito sul Corriere della Sera- “e l’anno prossimo saranno chiamate alle urne in tutto il mondo 4,2 miliardi di persone, più della metà della popolazione del globo. Ci saranno elezioni nei Paesi più grandi: Stati Uniti, Russia, India, Indonesia. Si voterà anche nell’Unione europea. È probabile che nel 2024 si giocheranno le sorti della democrazia nel mondo. Ci sono dunque ottime ragioni affinché gli avversari dei populisti, i popolari, i socialisti, i democratici, i liberali, si mettano al lavoro per individuare con lucidità i punti di forza di questa grande onda globale di rivolta, per provare a svuotarne i serbatoi di voti.”
Quando provo (e in questo l’età aiuta!) a guardare l’evolversi della storia sociale sui tempi lunghi, ho l’impressione che stiamo facendo un passo avanti e due indietro, insomma che questo percorso non sia sempre davvero “evolutivo”. Mentre su alcune questioni -ad esempio la consapevolezza di come la violenza verso le donne possa spesso annidarsi in atteggiamenti culturali che tendono a perpetuarsi- si registra un progresso; su altri importanti temi –la condivisione di principi giuridici internazionali, la costruzione di comunità economiche più solidali e interconnesse, il rispetto reciproco tra culture diverse– i risultati che sembravano ormai definitivamente acquisiti sono populisticamente abbandonati e rischiano di andare in pezzi come fossero accessori di poco valore.
Possiamo anche pensare che nella storia umana non c’è mai nulla di definitivamente acquisito, ma una bussola è comunque necessaria perché resta vera l’osservazione di Seneca che “non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. Mi piace il vento e mi piace saper distinguere quello favorevole da quello contrario.