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Nel 2014 veniva pubblicato “Giuda”, l’ultimo romanzo dello scrittore israeliano Amos Oz che morì pochi anni dopo. Il tema dell’opera è il tradimento, o meglio il tema di chi a torto viene considerato dai suoi come un traditore: perché ha il coraggio di cambiare quando gli altri non cambiano, o perché non ha paura di sembrare un codardo quando tutti gli altri giocano a fare i patrioti e gli eroi. Nel racconto Giuda è insolitamente tratteggiato come l’apostolo che più voleva bene a Gesù, quello che più lo capiva e lo tradisce a fin di bene, perché potesse realizzarsi un progetto più grande. Amos Oz è stato una figura culturale di primo piano nella storia politica di Israele e il suo messaggio –sostiene Fernando Gentilini(*) è chiaro e inequivocabile: ci vorrebbe un Giuda per portare la pace tra israeliani e palestinesi, un Giuda non più traditore ma uomo del compromesso.

Amos Oz si era convinto -dopo aver partecipato alla guerra dei sei giorni e a quella del Kippur – che l’unica strada capace di generare una situazione di stabilità tra israeliani e palestinesi fosse quella -paziente e coraggiosa- della costruzione di un compromesso tra le parti. Ogni intransigente arroccamento e ogni prova di forza -da una parte o dall’altra- non farà altro che creare le premesse di ulteriori conflitti sempre più gravi: “Siamo due nazioni che ambiscono allo stesso fazzoletto di terra, come due famiglie che dovessero occupare la stessa casa: non resta che farne due appartamenti ben divisi” -ha ripetuto Amos Oz in molte sue interviste- “ci vuole coraggio, bisogna che qualcuno si assuma la forza di essere chiamato traditore, come Ben Gurion quando alla fine della guerra di Indipendenza aveva accettato il piano di partizione dell’ONU, o come Rabin quando aveva firmato gli accordi di Oslo; ma anche come Sadat quando era andato a trattare a Gerusalemme, o Arafat quando si era rimangiato la distruzione di Israele sancita dall’OLP firmando -anche lui- gli accordi di Oslo. Quando la gente tornerà a dare del traditore ai propri leader –diceva Oz- allora vorrà dire che la pace è vicina». 

Il paradosso per il quale la vera forza non coincide sempre con la forza agita e il vero coraggio non coincide sempre con l’eroe mi è sempre piaciuto perché corrisponde alla vita reale e perché spinge a chiedersi ogni volta che ci troviamo in conflitto con qualcuno cosa realmente vogliamo e come vogliamo uscirne. Più precisamente a chiederci se ci sta più a cuore cercare soddisfazione per i torti subiti ed esibire lo scalpo dell’avversario o trovare un punto di compromesso meno gratificante della “vittoria sul nemico”, ma probabilmente più “vincente” sul piano della stabilità relazionale e della prevenzione dei conflitti futuri. Si tratta ogni volta di scegliere cosa privilegiare tra il breve periodo e i tempi lunghi, tra l’apparenza e la sostanza, tra il plauso populista e una politica lungimirante.

Ci vuole più coraggio a trovare faticosamente un punto di equilibrio che a rovesciare rumorosamente il tavolo: nessuno può prevedere con certezza cosa accadrà e calcolare tutte le variabili, ma temo che -a forza di rovesciare tavoli e sedie- aumentino le possibilità che i conflitti si incancreniscano e finiscano per costituire l’unica amara eredità che le generazioni seguenti si sentiranno in dovere di replicare. E così fino a quando -direbbe Amos Oz- qualche Giuda illuminato, da una parte e dall’altra, non deciderà di tradire la spirale negativa, rialzare tavoli e sedie e riprendere a trattare invece di sparare.

 

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(*) – Fernando Gentilini, diplomatico di professione, ha un’esperienza ventennale in gestione di crisi internazionali, affari europei e multilaterali.