Domenica 20 ottobre, davanti alla stazione di Verona, un poliziotto ha ucciso con un colpo di pistola Moussa Diarra, un ragazzo maliano di 26 anni. Cosa sia successo esattamente è ancora da chiarire, per ora si sa che l’agente della polizia ferroviaria coinvolto è indagato per eccesso colposo di legittima difesa e che si stanno analizzando tutte le immagini registrate dalle telecamere della zona. Ma non è la dinamica del fatto il focus di questa riflessione: quanto è avvenuto davanti alla stazione di Verona è solo l’ultimo drammatico fotogramma di una storia, senza conoscere la quale anche questa morte finirebbe nel cesto della cronaca nera e perderemmo il contesto, il senso, le cause, le assurdità procedurali… insomma tutto quello che può davvero aiutarci a capire e ad evitare che gli errori si perpetuino. Ha senso continuare a collezionare solo gli ultimi fotogrammi senza conoscere le storie di cui essi sono l’epilogo? 

Provare a ricostruire la storia di Moussa significa raccontare un contesto comune a molte persone migranti, non solo per le cause che li hanno spinti o costretti ad emigrare, ma anche -e soprattutto- per le analogie del loro percorso nelle strutture di accoglienza, per le lunghe attese e le complicate procedure burocratiche per ottenere i permessi di soggiorno e per la esasperazione alla quale chiunque di noi giungerebbe di fronte al muro di gomma che -decreto dopo decreto- è stato costruito per “difendere la nazione”.

Moussa era nato nel sudest del Mali dove, dal 2012, è in corso una guerra civile che ha provocato migliaia di morti e milioni di sfollati. «Siamo entrambi scappati dalla guerra», ha raccontato Sekou, un maliano amico di Moussa. Dal Mali circa nove anni fa entrambi erano arrivati in Libia, dove avevano lavorato per otto mesi: «Per pagarci il viaggio sul barcone, e abbiamo subito violenze in quelle prigioni da cui si esce solo pagando». Uscito dalla Libia, «pagando», nel 2016 Moussa era sbarcato a Lampedusa.

Una volta arrivato a Verona aveva iniziato la trafila per regolarizzare la propria situazione. Due avvocati veronesi hanno ricostruito che il ragazzo aveva avuto un primo colloquio con la commissione territoriale nel 2017. A seguito del colloquio gli era stato riconosciuto un permesso umanitario, che all’epoca veniva concesso a chi aveva determinate condizioni di vulnerabilità e aveva richiesto asilo. La durata di questo permesso, nella prassi amministrativa, era di due anni. Dal 29 giugno del 2020 Moussa aveva un cedolino della questura che attesta come lui avesse presentato domanda di rinnovo e come fosse in attesa di una risposta. Dai suoi documenti risulta che la questura gli avesse fissato diversi appuntamenti: il 13 dicembre del 2021, il 31 gennaio, il 17 marzo, il 31 marzo, il 5 maggio, il 26 maggio, il 14 luglio e il 26 agosto del 2022. Queste date, indicate e poi via via cancellate, dicono che Moussa si era sempre presentato e aveva ricevuto, ogni volta, un appuntamento successivo. Aveva un ultimo cedolino che lo rimandava a un nuovo appuntamento in questura previsto per agosto, che era stato poi spostato per l’inizio di ottobre. Aveva ottenuto un contratto di lavoro, ma aveva problemi con il codice fiscale: «Gliene avevano dato uno provvisorio, ne avevamo richiesto uno definitivo che gli permettesse l’accesso a tutta una serie di procedure, ma anche lì la cosa è complicata», dice Jacopo Rui dell’associazione One Bridge To.

Moussa aveva sempre lavorato: nello scarico e carico bagagli, come falegname, lavapiatti, nei campi a 3 euro all’ora. Si era ritrovato con un documento ufficiale ma temporaneo e sempre prossimo alla scadenza e, soprattutto, non avendo più un posto dove stare, aveva dovuto vivere di espedienti, tra la strada e soluzioni che non lo erano. Tre mesi fa il padre di Moussa era morto in Mali. Negli ultimi tempi lui non riusciva neppure ad alzarsi dal letto, hanno raccontato alcuni suoi amici. E così aveva perso l’appuntamento del 10 ottobre per il rinnovo del permesso. Durante il presidio per Moussa che si è svolto in stazione a cui hanno partecipato oltre 500 persone un suo amico ha osservato: «Si fa fatica a sopravvivere in un contesto come questo. Chi è che rimane “sano” in un contesto come questo? Chi è che mantiene la calma quando, se provi a chiedere protezione in questo paese, ti trovi la scritta “limite invalicabile”, ti viene risposto per anni “torna la settimana prossima” o “gli sportelli sono chiusi?”». 

Matteo Salvini ha subito commentato la morte di Moussa -senza neppure sapere chi fosse- scrivendo sui social: «Con tutto il rispetto, non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il loro dovere.». Anche a noi, con tutto il rispetto, un ministro così non mancherebbe affatto.