Nel suo recente editoriale dal titolo “La violenza e il giudizio della storia” (QUI), Ernesto Galli della Loggia si chiede “può un Paese democratico -sia pure nel corso di una guerra- usare la violenza in modi che spesso appaiono smisurati e perciò crudeli?”. Con un’ampia ricognizione storica il professore ricostruisce un quadro davvero inquietante: “la storia della democrazia mostra che essa ha spesso e volentieri (per non dire quasi sempre) praticato la violenza sia all’interno sia all’esterno dei confini. Siamo figli o eredi di una storia siffatta, forse dovremmo ricordarcelo più spesso”.
Sembrerebbe dunque improprio stupirsi -in guerra- dell’uso “smisurato” della violenza da parte di un paese democratico o scandalizzarsi del fatto che esso violi principi giuridici universalmente accettati e condivisi. “Anche la democrazia europea occidentale -afferma infatti l’autore- è nata dalla vittoria riportata dai «buoni» contro i «cattivi» in una guerra terribile in cui il maggior numero dei morti non si è verificato tra i soldati ma tra i civili”. A noi oggi la violazione delle regole internazionali appare inaccettabile -sembra concludere lo storico- perché “il giudizio da storico-politico si è tramutato in giudizio etico-giuridico”.
E’ certamente vero che in passato la violenza è stata utilizzata -in misura estrema- anche da paesi democratici, tuttavia questa constatazione sul piano storico a me sembra che non possa essere un motivo sufficiente per perpetuarla o tollerarla. Aver tratto insegnamento da quanto accaduto ed essere faticosamente riusciti a portarlo sul piano etico/giuridico (regole, trattati, leggi internazionali condivise) è quanto di meglio ci siamo inventati proprio per evitare di limitarci a constatare a posteriori i danni prodotti dalla violenza: le regole accettate e condivise a livello internazionale non sono astrazioni avulse dalla storia, ma uno dei traguardi più evoluti raggiunti proprio grazie alla storia.
Un altro passaggio dell’editoriale che mi lascia perplesso è quello in cui si afferma: “… le emozioni degli individui e dei popoli non sopportano di essere racchiuse nella definizione formale e astratta delle fattispecie giuridiche. Rimane sempre uno spazio diverso e irriducibile dove a decidere è chiamato il nostro convincimento circa quello che in una determinata situazione l’insieme delle circostanze impone che «si debba» fare”.
L’affermazione è imbarazzante, se “rimane sempre uno spazio” dove ognuno decide cosa “si debba” (o “si voglia”?) fare, allora le regole che la comunità internazionale si è data si riducono ad una mera indicazione che chiunque può decidere di ignorare in nome delle “emozioni degli individui e dei popoli”. Ma è proprio per evitare che a guidare il comportamento degli individui e dei popoli siano le loro “emozioni” che quelle regole (tutt’altro che astratte!) sono state scritte e accettate!
Condivido -a questo proposito- quanto scrive il nostro amico Nino Sergi: “Non rispettare e non esigere il rispetto del diritto internazionale umanitario o esigerlo solo a seconda delle convenienze politiche è la premessa per rafforzare e accelerare un mondo senza regole e senza umanità”.
E’ vero che regole e leggi non bastano -da sole- ad evitare le violazioni, ma questo è un buon motivo per confermarle ribadendo il confine tra ciò che si può fare e ciò che non si può. Le leggi e le costituzioni -come ricorda un illustre giurista- «si fanno quando i popoli sono sobri a valere per quando sono ubriachi».