In tempi in cui si può essere eletti presidenti degli Stati Uniti ripetendo all’infinito -come una giaculatoria- “Make America Great Again!”, la forza e la grandezza stanno tornando ad essere qualità virtuose ed ambite. E non solo negli Stati Uniti. Nulla da ridire sulla forza e sulla grandezza, basta mettersi d’accordo sul significato delle parole: i concetti di forza e debolezza -infatti- non sono assoluti, né hanno lo stesso senso se riferiti al corpo o alla mente, all’affermazione di se stessi o al prevalere della relazione, all’individuo o alla comunità.
In una comunità la “forza” trova il suo significato più autentico nella capacità dei suoi componenti di coesistere e integrarsi; una società che fosse esclusivamente orientata ai forti, per quanto possa sembrare all’apparenza competitiva e vincente, risulterebbe in realtà intrinsecamente fragile. L’esclusione sistematica dei più deboli non solo genera emarginazione, ma mina alla base la coesione sociale, alimentando tensioni e disuguaglianze che, a lungo andare, ne compromettono la stabilità e la sostenibilità.
Questa riflessione mi è stata stimolata da una notizia -marginale?- che ho letto questa settimana relativa al treno che collega Roma a Ostia: “Cotral e Astral, le agenzie regionali che gestiscono la linea ferroviaria, hanno deciso che sui treni l’apertura delle porte non sia più automatizzata, ma funzioni solo su richiesta. In altri termini, bisogna spingere un pulsante che si trova al centro della porta, altrimenti la porta non si apre.” Il problema è che la sosta del treno in banchina dura in genere pochissimi minuti, più che sufficienti per salire o scendere, ma non per tutti: per un cieco -ad esempio- accedere alla vettura diventa impossibile, deve allinearsi alla porta e aspettare che qualcuno scenda o salga, ma -se nessuno apre- deve provare da solo a tentoni con il bastone a trovare il pulsante, facendo attenzione al gradino fra la banchina e la vettura; c’è il rischio concreto di inciampare e cadere o rimanere con il bastone incastrato fra la porta. Si tratta certamente di una difficoltà che riguarda solo una minoranza, ma è proprio dal farsi carico o meno dei più “deboli” che si capisce se una società è davvero “forte”: “il problema non è essere ciechi ma non essere visti”, ha giustamente commentato il cieco che ha segnalato il problema.
Non è questione solo di chi è cieco, quanti esempi potremmo fare di persone che per i loro limiti restano escluse dall’accesso ai servizi, dal cogliere le opportunità, dal godere dei beni pubblici? E non dobbiamo pensare solo ai limiti fisici: c’è chi non è abbastanza “smart” nell’utilizzare cellulari ed app, chi non è linguisticamente attrezzato per capire le implicazioni di cliccare “accetta” in fondo a una paginata di info su “privacy” e “consenso”, ecc. E’ davvero “forte” una società che non tutela queste fragilità? E’ un errore interpretare il concetto di inclusività come sinonimo di assistenzialismo passivo: una società forte non si limita a “prendersi cura” dei deboli, ma crea le condizioni per permettere loro di esprimere il proprio potenziale, trasformando quella che potrebbe essere vista come una fragilità in una risorsa.
Forza e debolezza non si annullano a vicenda: sono parte di un equilibrio dinamico. Ogni individuo, in momenti diversi della propria vita, può trovarsi in condizioni di forza o debolezza, e proprio per questo è essenziale che il tessuto sociale sia in grado di adattarsi e sostenere tale variabilità. È nella capacità di bilanciare forza e debolezza, di accettarle come componenti essenziali della condizione umana, che una società trova la sua vera solidità.
Forse più che inseguire il nostalgico modello del “Great Again”, dovremmo cercare di costruire una società realisticamente più equilibrata ed inclusiva, unica garanzia di stabilità e di crescita.