Chi vivrebbe tranquillo se avesse costantemente paura di essere aggredito in strada, di scoprire rientrando la sua casa svaligiata o di non ritrovare la sua macchina ogni volta che la parcheggia? La sicurezza è un tema indubbiamente importante sia per i singoli che per la società in cui viviamo. Il tema è determinante anche sul piano del consenso politico: se le persone hanno paura e chiedono maggiore sicurezza è inevitabile che votino più volentieri chi sottolinea di più questa esigenza e promette di porvi rimedio.
Il punto non è dunque se la sicurezza sia un tema centrale, ma di quale sicurezza stiamo parlando: occorre mettere meglio a fuoco chi e cosa la mette a rischio e chi e cosa la rafforza. In teoria una società “sicura” sarebbe una società in cui potremmo non chiudere la porta di casa, tranquilli che nessuno ne approfitterà per aggredirci o danneggiarci; in pratica, invece, dobbiamo tutti -chi più, chi meno- adottare il livello di “blindatura” che riteniamo necessario (o che possiamo permetterci) per sentirci più sicuri. Tuttavia la somma delle sicurezze individuali non basta a garantire la sicurezza sociale. È qui che entra in gioco la responsabilità politica: proporre e costruire un modello di sicurezza che non si limiti a rafforzare i sistemi di protezione fisica, ma che lavori per ridurre le cause profonde che la mettono a rischio. La sicurezza non può essere solo una questione di ordine pubblico, va affrontata nelle sue radici sociali soprattutto in un contesto di crescenti disuguaglianze.
Un modello basato solo sulla “blindatura” può offrire soluzioni temporanee, ma rischia di alimentare ulteriormente il clima di paura; al contrario, un approccio che punta a costruire relazioni sociali forti e a ridurre gli squilibri crea le basi per una sicurezza duratura. Occorrono contemporaneamente entrambe le strategie: il controllo e la prevenzione. E’ utopico credere che sia sufficiente predicare rispetto e praticare solidarietà per risolvere il problema della sicurezza, ma neppure il poliziotto di quartiere (a proposito, qualcuno l’ha mai visto?), le ronde cittadine e l’inasprimento delle pene servono a molto, e spesso il solo risultato è spostare il problema di qualche centinaio di metri…. In definitiva, una società più sicura è quella che investe sulla inclusione di chi vive ai margini; non solo sui vigilanti, i lucchetti e le telecamere [un esempio per chi vive a Roma: la zona di via Marsala è resa più sicura dal centro di accoglienza di Binario95 o qualcuno preferirebbe ronde di vigilanti h24?].
La scorsa settimana il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, ha notato: “L’insicurezza e l’illegalità colpiscono prima di tutto i fragili: chi vive nei quartieri più difficili delle nostre città e chi ha un livello di istruzione più basso. Se non della sinistra, di chi dovrebbe essere la priorità di difendere queste persone?”. Non è sensato evitare di parlare di sicurezza per il timore che venga percepito come un tema di destra; è un tema vero che non è né di destra, né di sinistra: la differenza si fa su come viene affrontato e su quale delle due strategie (prevenzione e controllo) si privilegia di fatto. Anche Walter Veltroni ha rimarcato -sul Corriere della Sera- “Se non si vuole che certe idee violente, razziste, autoritarie si diffondano ancora più velocemente, bisogna avere il coraggio di capire che la vita concreta dei cittadini di questo tempo è fatta di tre priorità. Tre, non due. Lavoro, sanità e sicurezza.”
La politica concreta non si fa trovando capri espiatori e soffiando sul fuoco della paura, si fa proponendo una strategia e attuandola coerentemente: se riusciremo a sentirci più sicuri sarà stata una buona politica, se non ci riusciremo sarà stata una cattiva politica.