Durante la guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta, nel 416 a.C. gli ateniesi pongono un ultimatum agli abitanti dell’isola di Melo: assoggettarsi al loro dominio o perire. Lo storico Tucidide ricostruisce il dialogo tra gli ateniesi e gli ambasciatori dei Melii per discutere un accordo. La difesa dei Melii del loro diritto alla neutralità si fonda su criteri di giustizia condivisa; gli ateniesi negano invece il valore di qualunque regola o patto che non tenga conto della disparità di forze. E’ -in sostanza- l’affermazione arrogante del diritto del più forte su qualunque criterio di giustizia, equità e accordo.
Il passaggio più significativo del dialogo riportato da Tucidide può essere così sintetizzato:
- ATENIESI – “Noi non perderemo tempo con lunghe parole e belle frasi, pretendiamo invece che si proceda secondo la nostra convinzione: noi siamo convinti che il diritto è riconosciuto quando c’è una uguale necessità per le due parti, quando invece una delle parti è più forte fa quello che vuole e chi è più debole cede”.
- MELII -“A nostro parere, almeno, è utile che noi non distruggiamo questo bene comune, ma che sia conservata la giustizia a colui che di volta in volta si trova in mezzo ai pericoli”.
Il rifiuto dei Melii darà luogo a una punizione esemplare, uno degli episodi più tragici della guerra: la distruzione della città, l’uccisione di tutti gli uomini e la deportazione come schiavi di donne e bambini.
Sono passati 2441 anni dal drammatico dialogo tra gli Ateniesi e i Melii e quello al quale abbiamo assistito venerdì sera nello studio ovale della Casa Bianca tra Donald Trump e Volodymir Zelensky, ma la sostanza è identica: il diritto della forza opposto alla forza del diritto.
Probabilmente Trump -oltre ad essere il più forte- è anche convinto di essere un genio innovatore della politica e della storia, mentre è solo l’ennesimo interprete della banale regressione alla legge della giungla. C’è da augurarsi una reazione degli altri soggetti della comunità internazionale in grado di scongiurare lo scivolamento degli eventi verso la tragedia di un conflitto più esteso e violento.
Quello che possiamo considerare “progresso dell’umanità” non è solo quello tecnologico che ci portato dal carretto alla Tesla, è soprattutto quello che ci ha portato dal diritto della forza alla forza del diritto e che sembrava essere ormai acquisito -negli ultimi ottanta anni- a livello mondiale: sarebbe davvero una tragedia dover ricominciare dalle macerie.
Una decina di anni fa, facevo parte -in rappresentanza delle Ferrovie dello Stato- del consiglio di amministrazione del Memoriale della Shoah della Stazione di Milano e durante un incontro ricevemmo la visita di Liliana Segre. Ricordo che nel suo intervento ci raccontò che la sofferenza più grande da lei provata negli anni successivi all’olocausto si annidava nella percezione della sostanziale “indifferenza” da parte della società rispetto al suo dolore e alla sua storia. Identificava in questa indifferenza il vero nemico da combattere, anche perché essa costituiva la condizione culturale in cui la Shoah aveva potuto verificarsi.
Liliana Segre aveva certamente ragione e venerdì sera -dopo la frattura tra Trump e Zelensky- ho cercato di immaginare come dovevano sentirsi gli ucraini dopo tre anni di guerra e di distruzione. In momenti così difficili l’indifferenza può apparirci una via di uscita e una difesa dalla preoccupazione, ma non è una buona idea, né un buon investimento per il futuro.