“La memoria, affermava Italo Calvino, conta veramente -per gli individui, le collettività, le civiltà- solo se tiene insieme l’impronta del passato e il progetto del futuro, se permette di fare senza dimenticare ciò che si voleva fare, di diventare senza smettere di essere, di essere senza smettere di diventare”. Viviamo in un’epoca in cui i rituali collettivi e le commemorazioni dei tragici eventi della storia vengono spesso preferiti all’analisi e alla riflessione, alimentando così una “religione civile” che ci rassicura e ci consola, nell’illusione di opporre il presente al passato, la vita alla morte, il bene alla barbarie.
Anche la memoria della Shoah, concepita come antidoto contro il razzismo e l’antisemitismo, è un’illusione che ci conforta e ci protegge dal pensiero inquietante che il male possa ripetersi. In questo modo però la memoria finisce per declinarsi solo in senso morale: il rito del ricordo del male patito dalle vittime dovrebbe “servirci da lezione”, affinché “non accada mai più”. Il fatto è che -purtroppo- l’effetto non è automatico (non è mai il rito da solo a salvarci!), perché sia efficace occorre che il ricordo si saldi all’impegno, che il passato riesca a connettersi al presente, consenta di decodificarlo e ci spinga a modificarlo.
Se questo non avviene, il racconto di ciò che è stato resta sterile e non produce alcun cambiamento. Un esempio attualissimo ce lo suggerisce (QUI) Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli: “Anche in questi giorni in cui i riflettori sono puntati sulla vicenda delle persone che cercano di giungere in Europa attraverso la rotta balcanica, vengono raccontate storie “notiziabili”, che colpiscono, che emozionano; storie che stanno bene sotto i riflettori ma appena questi si spegneranno le storie spariranno insieme ai protagonisti, perché queste persone non sono arrivate a coabitare i nostri spazi di vita, ad abitare le nostre preoccupazioni quotidiane ma semplicemente le hanno attraversate con la volatilità di una notizia che non ha corpo”. Perché queste notizie abbiano un corpo -continua Ripamonti- occorre che “si inneschino reali processi di cambiamento: il racconto divenga vita condivisa e sia assunto dalla società civile come vita di una persona che ha una dignità e che aspetta di abitare al nostro fianco, in una casa che è casa comune”.
Se la memoria non arriva ad “abitare le nostre preoccupazioni” non serve a niente, resterà solo una nozione irrilevante per il nostro agire. Papa Francesco, parlando a braccio, dopo l’Angelus di domenica 24 gennaio ha ricordato Edwin, un senzatetto nigeriano, morto a causa del freddo a pochi metri da piazza San Pietro: “La sua vicenda si aggiunge a tanti senzatetto recentemente deceduti a Roma nelle stesse drammatiche circostanze. Pensiamo a lui, a cosa ha sentito quest’uomo, 46 anni, nel freddo, abbandonato da tutti, anche da noi”. L’invito ovviamente non è a ricordare quell’uomo e a commuoverci qualche istante, l’invito è ad immedesimarci con quest’uomo e a farne memoria “attiva”, a far sì che il ricordo abiti le nostre preoccupazioni affinché situazioni simili non si ripetano.
A questo serve la memoria, ma solo se vogliamo che serva.
Diversamente la memoria delle tragedie -grandi e piccole- funzionerà solo da alibi e ci esimerà dal fare i conti con il suo ripetersi: lo scrittore Régis Debray diceva che «non si commemora mai così tanto come quando si vuole evitare di ricordare».