Nell?estate del 2023 faceva caldo anche a Parigi. Molto caldo, un caldo che non si ricordava da anni. In maniche di camicia camminava su boulevard Haussmann diretto al Louvre un giovane turista di origine italiane, pro-pro-pro (all?ennesima potenza) pronipote di un tal Bondone, nato nel Mugello, zona tipica di olio e vino. Il suo nome era Otto, in quanto ultimo di otto figli. Come il suo antenato, Otto amava l?arte. Ma l?amava istintivamente senza aver fatto mai un quadro. A scuola aveva sentito dire che una volta si credeva che ci fosse una cosiddetta arte italiana, ovviamente prima che la repubblica fosse spacchettata (ottobre 2009) in Terronia, Padania, Centronia e Insulonia.
Così, a lui, di origini italiane, anzi Centronie, venne in mente di scrivere una storia dell?arte della Centronia, pensando di fare una cosa nuova, visto che a scuola ormai si studiavano solo ricette di cucina locale, che , limitatamente ai corsi superiori, prevedevano anche l?abbinamento con vini, rigorosamente regionali. Così, preso da questa idea innovativa, ma in verità, anche per ripararsi dal caldo, decise di entrare al Louvre e di salire nell?ala Denon, al primo piano, (perché gli avevano consigliato ? essendo esposta a Nord – che era la più fresca).
Così, oltrepassata la Nike di Samotracia, invano richiesta al governo francese proprio in quei giorni dalla novella repubblica di Magna Grecia, entrò nell?ala della pittura italiana (i francesi, sempre un po? retrò, la chiamavano ancora così). Lì si imbatte subito nel suo ante, ante, ante antenato che aveva ritratto un certo S. Francesco, di cui, in epoca consumistica come l?attuale, nessuno si ricordava più. Gli sembrò vagamente di ricordare che aveva letto qualcosa di costui a scuola nel testo di Storia del Dialetto Umbro dove si raccontava di un santo straccione che parlò agli animali, lupi e uccelli, in dialetto assisiate tardomedioevale. E fu subito capito: ciò veniva annotato nel libro come una delle prime riprove della superiorità del dialetto sulla lingua ufficiale.
Mentre guardava incuriosito questo quadro, un solerte guardiano di sala (che non avendo niente da fare per tutto il giorno aveva approfondito le storie di tutti i pittori che gli toccava sorvegliare) gli si avvicinò e gli raccontò la storia di quel suo lontano, lontanissimo avo, che, guarda caso si chiamava quasi come lui: cominciò dal fatidico O raccontato dal Vasari a quando quel Giotto di Bondone da Firenze si incamminò verso la Padania e, passo dopo passo, ovunque andava creava e lasciava scuole di pittura, a Rimini, a Padova. La stessa cosa avvenne in Centronia in tutta la Toscana, in Umbria, a Roma e in Terronia, come a Napoli, in Lombardia, Emilia, nel resto del Veneto, ecc ecc.
Di sala in sala, finalmente rinfrescatosi, il giovane Otto Bondone (che a Parigi chiamavano Bondòn, segando la e finale) arrivò in una sala piena di folla. Tutti erano lì prostrati al sorriso ambiguo di una massiccia figura femminile di nome Lisa. Chissà perché – si chiese il giovane Bondòn – visto che in questa sala c?erano altri e forse più pregevoli ritratti (dipinti da pittori che, come aveva studiato, parlavano il dialetto veneto (Tiziano, Veronese e Tintoretto), emiliano (Caracci) e romano (Raffaello , che però lo imparò a Roma) ed erano ?come riportava il sacro testo Storia della cucina regionale – rispettivamente specialisti: Tiziano in polenta coi porcini del Cadore (che abbinava al merlot), Carracci in cappelletti in brodo, abbinati rigorosamente al lambrusco, mentre Raffaello sapeva fare bene la pizza bianca, bassa e molto oleosa, avendo avuto come amante una fornarina romana. Questa signorina Lisa, come gli spiegò un altro guardiano, fu dipinta da un suo ex ex ex conterraneo, originario di un paesello vicino Firenze, Vinci (ad Otto noto per i crostini e il chianti classico), che nel suo peregrinare portò con sé l?amato quadro da Firenze fino ad Amboise, dove poi morì, venerato dal più potente sovrano dell?epoca, Francesco I. Anche lui dove andava lasciava scuole e devoti seguaci. Successe a Milano, nell?intera Padania, fino in Francia a Fontainebleu. La stessa forza di contagio poi notò in altri pittori lì esposti, Raffello, Mantenga, Tiziano. Un tal Antonello poi, di cui notò un bel ritratto nell?ala Denon, chissà perché da Messina (che il giovane aveva studiato per i cannoli e il vino marsalato) volle andare a Venezia e lì incontrò un altro grande pittore, Giovanni Bellini, fondatore della scuola veneta, esposto, non a caso, vicino ad Antonello. Di Giovanni Bellini al liceo Otto aveva studiato l?ottima polenta con gli osei che preparava tutte le domeniche per il Doge Leonardo Loredan, che poi ritrasse, nei primissimi del 1500, sorridente dopo un?epica abbuffata.
Passeggiando senza fretta nell?ala Denon, sempre più fresca per il calar della sera, alla fine il nostro Bondòn si imbattè in una popolana morta affogata che un tal Michelangelo Merisi da Caravaggio (prospera cittadina della Padania) dipinse a Roma (già allora ladrona,) per i Carmelitani di Santa Maria della Scala nel 1604, che però non apprezzarono la novità di una ragazzona di dubbi costumi fatta Vergine Maria e rifiutarono l?opera. Dalla Padania in Centronia, poi in Terronia e in Insulonia: quanti viaggi anche questo Merisi, senza pace. E in ogni sosta anche per lui scuole e seguaci, fino in Francia, Spagna e Olanda. Ma guarda questi guardiani del Louvre ? pensò tra sé il giovane centronio ? sanno tutto di questi pittori, tutti i viaggi che hanno fatto e non sanno nulla del dialetto che parlavano o dei cibi che cucinavano!
Per fare un po? di chiarezza in tutti questi viaggi allora venne in mente al giovane Otto (Bondòn o Bondone) di prendere una cartina geografica e congiungere pittore per pittore tutti i posti città per città che questi grandi artisti avevano visitato lasciando scuole e seguaci. La sua mappa (era una vecchia mappa dell?Italia, quando ancora era una sola Repubblica: non servendo più da alcuni decenni a Parigi ci incartavano le baguette) divenne ben presto nera di righe fitte, trasversali, verticali e oblique: insomma un vero sgorbio. Fu così che il promettente storico dell?arte della Centronia uscì dal Louvre, rinfrescato sì, ma con le idee molto confuse. Forse la cultura di un popolo non è solo la diversificazione dei dialetti parlati nelle valli, il diverso modo di pronunciare osei (a scuola oltre al milanese (prima lingua) aveva studiato e comparato il bresciano e il bergamasco). Forse la cultura locale non è solo il diverso modo di cucinare la polenta, come gli avevano insegnato per lunghi cinque anni al liceo classico U. Bossi professori cuochi della Val Brembana, materia che peraltro aveva portato anche agli esami di maturità (corredata da una tesina sulla polenta fritta di Chioggia). Forse la cultura di un popolo è qualcosa di più complesso che si stratifica negli anni, nei secoli, combinando input/output esogeni e endogeni di ben altra natura (non solo ?vocali? o ?gastronomici?), che a loro volta metabolizzati ri-escono e come palle di bigliardo rimbalzano di terra in terra di città in città rimodificandosi e rimodulandosi creando koinè? Non è forse questo mix di ?palle da biliardo?quello che determina la cultura di un popolo, di una nazione? Come si può allora fermarle, ri-separarle e ri-stringerle su scala regionale o locale? Non sarà che forse è impossibile dividere la cultura di un popolo? Non è forse proprio la cultura intesa come stile di vita e visione del mondo quella che determina la differenza tra popoli? E il Rinascimento ad esempio non era forse il primo vero tentativo di creare un?unità d?Italia, che già rendeva ?diverso? (univa, esprimendo koinè) questo popolo, ancora non presente sulle carte geografiche, eppure già ?altro?dalla Francia ad esempio o dalla Spagna e dalla Germania?
In preda a questi dubbi il giovane Bondòn uscì dal Louvre, fece due passi sotto il sole finalmente calante e si sedette a prendere un aperitivo al Cafe de Flore sul Boulevard St Germain. Lì tanti anni prima, proprio seduti in quel tavolino, Sarte e Simone de Beauvoir avevano fondato l?esistenzialismo, come gli spiegò con entusiasmo un informatissimo cameriere col cravattino, che l?esistenzialismo aveva studiato a scuola all?interno di un corso di 5 anni di filosofia (per fortuna in Francia non era passata una proposta di riforma scolastica che prevedeva l?abolizione del corso di filosofia e la sua sostituzione con la Storia del Dialetto di Montrichard, ridente villaggio della valle della Loira). Pensò Otto: guarda che entusiasmo! Che orgoglio ad essere francesi! guai qui in Francia a far della cultura francese un fenomeno locale! Per non parlare della marsigliese e del tricolore: chi si sognerebbe di fischiarli e di insultarli, di fargli il gesto dell?ombrello (era con la foto di Bossi che faceva il gesto del dito medio al tricolore che si aprivano tutti i libri di testo al liceo)! Ci rifletté un po? su e poi pensò che il suo lontano, lontanissimo parente forse aveva, a sua insaputa, cominciato a creare l?unità d?Italia quando ancora esistevano solo i Comuni. Così in un fremito di ritorno alle origini ? Otto si impersonò in Giotto ? e decise di scrivere una cosa nuova e rivoluzionaria: una storia dell?arte italiana.
PS.
L?opera fu terminata 3 anni dopo. Venne pubblicata a Parigi nell?edizione Gallimard. Ebbe un successo internazionale strepitoso. In Centronia nessuna tipografia accettò le bozze. Il giovane Bondone fu costretto a restare a vivere a Parigi. Ora insegna Storia dell?arte italiana alla Sorbona e tutti lo chiamano professeur Huit Bondòn.